CANNES 67 – P'tit Quinquin, di Bruno Dumont (Quinzaine des réalisateurs)

La curiosità sull'annunciata “serie tv di Bruno Dumont” era tanta. E queste quattro puntate di P’tit Quinquin sorprendono dalla prima inquadratura proprio per il profondo mutamento di registro, verso il comico/grottesco, che il cineasta (si) impone ricodificando luoghi e tematiche a lui molto care. Un universo sempre eterodiretto il suo, ma che si apre improvvisamente a rari momenti di sincera tenerezza e bellezza che esulano dal consueto programmatico disegno

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Bruno Dumont dirige una serie Tv. L’alfiere della più austera autorialità europea, capace di spaccare ogni giudizio critico con il suo sguardo sul mondo tanto personale e invadente da apparire “sommamente necessario” per alcuni o “sterilmente autoreferenziale” per altri, ora sbarca in televisione. La curiosità era tanta, non c’è dubbio. E queste quattro puntate di P’tit Quinquin sorprendono dalla prima inquadratura proprio per il profondo mutamento di registro che Dumont assume e (si) impone ricodificando luoghi e tematiche a lui molto care. Andiamo con ordine. Siamo nella zona rurale della Francia del Nord, Boulunnais, distese di verde e contadini che vivono di coltura e allevamento di pregiati animali come i famosissimi cavalli bianchi. In questo piccolo borgo di campagna, nella prima puntata, viene trovata una mucca morta dentro un vecchio bunker della Seconda Guerra Mondiale. Sotto la carcassa vi è del sangue umano, precisamente di una donna la cui testa verrà trovata poco dopo nello sterco di maiale. Un incipit non dissimile da tanti incubi noir che la Tv ci ha fornito (dal capostipite Twin Peaks sino al recentissimo True Detective) ma che Dumont si diverte istantaneamente a ribaltare in un registro comico/grottesco che sin dall’incipit segna il tono dell’intera serie. Deformazioni e handicap di ogni tipo nei personaggi: difetti fisici, mentali, comportamentali e umorali abbondano negli abitanti del borgo, sottolineati con un gusto per la comicità nerissima (sicuramente efficace, ma in alcune circostanze discutibile) a dir poco sorprendente in Dumont. Gusto che, a pensarci bene, è solo l’altra faccia, il controcampo, di una profonda presa di coscienza sull’umanità che il regista de L’humanitè ha sempre manifestato.

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È come se tutti i temi forti di Dumont (la campagna arcaica e la riflessione sull’uomo, la spettrale banalità del male e il post-storia, il razzismo latente e la violenza come forma di “comunicazione”, ecc) fossero stati ribaltati in una furiosa verve comica che spiazza da un lato e invita a una più attenta riflessione dall’altro. I protagonisti della serie sono molti, ma fondamentalmente ci si sofferma sul bizzarro e maldestro capitano della gendarmerie Van Der Weyden e sul piccolo Quinquin, figlio di un allevatore e leader di un gruppo di ragazzini, che inizia una privata indagine subito dopo il primo omicidio a cui seguirà un'improvvisa escalation di sangue e cadaveri. È “la bestia umana” dice il poliziotto Carpentier, è “il Diavolo in persona” sentenzia il capitano Van Der Weyden, ma forse si tratta semplicemente di quel male endemico che domina gli istinti nella visione dumontiana della vita.

Ecco: a Bruno Dumont non interessa minimamente tutto l’aspetto più seriale o di genere del suo racconto, inabissando ogni riferimento poliziesco in un consapevole ed esilarante giro a vuoto narrativo che lascia la situazione ogni volta identica al punto di partenza. L’auto di Carpentier che clownescamente fa diversi giri su se stessa prima di partire sgommando (una delle figure ricorrenti della serie) è veramente una presa di coscienza filosofica ed estetica sul mondo: qui si gira a vuoto e si insegue la dispersione totale delle azioni e dei segni in un dettagliatissimo collage di piccoli momenti di sgradevole malvagità quotidiana, razzismo incipiente dalle conseguenze devastanti ed eterno ritorno dell’uguale di nietzschiana memoria. Questa volta però Dumont si apre improvvisamente a rari momenti di sincera tenerezza che esulano dal suo consueto e programmatico disegno. Quinquin, la fidanzatina Eve e soprattutto la sorella di lei (aspirante cantante un po’ depressa) vengono colti in fulminei o insistiti primi piani che aprono un mondo sin ora sconosciuto a Dumont (o forse raggiunto solo nell’ultimo Camille Claudel) sfiorando la poesia pasoliniana del basso come rare volte nel suo cinema era riuscito. La bellezza è sempre e comunque sporcata dalla malvagità (la giovane cantante farà una fine orrenda) ma resiste e rimane in quei preziosi primi piani. “È l’inferno, caro Carpentier!” continua a ripetere il capitano, ma proprio nell’inferno della televisione lo sguardo di Dumont trova inaspettati punti di fuga.

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