CANNES 67 – Queen and country, di John Boorman (Quinzaine des Réalizateurs)


Cinema politico anche e soprattutto perche’ armato delle armi dinamitarde del classico, questo diario goliardico e scorretto di un anno di resistenza interna alla leva e di straziante coming of age racconta ancora una volta dell’utopia piu’ grande, ovvero che il cinema, tutto quello che lo schermo ci racconta quando siamo bambini e ragazzi, non possa essere sbagliato, mai. Il cinema come arma di sovversione

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Difficile riuscire a trovare le parole oggi, dopo quel meraviglioso tuffo in acqua del giovane Bill Rohan, sopravvissuto alla chiamata alle armi per la guerra in Corea, e ora regista in erba: la ragazza in acqua, la sua attrice, invoca soccorso, lui si butta a salvarla e lascia la piccola macchina da presa a girare sul cavalletto, incontrollata (non c’e’ troupe in questo film familiare). Ma quello della rubiconda Sophie era uno scherzo, e i due si baciano cullati dalle onde. La cinepresa, dal canto suo, continua a girare. Titoli di coda.
Immenso John Boorman in questa autobiografia menzognera, memoria reinventata come quella di Hope and glory, di cui è a conti fatti il secondo capitolo, ricostruzione storica che incorpora bugie, fantasmi, apparizioni, come l'angelica Ophelia in tv il giorno dell'incoronazione di Elisabetta II (sequenza pazzesca…), improvvisi tuffi nella realtà (la visita al reparto dei feriti in Corea del finale): a giocare ad essere inafferrabili come il cinema, come se si fosse quei soldati scapestrati e insofferenti alle regole dei film di guerra, poi si finisce male per davvero, come impara sulla sua pelle il ribelle Hapgood per il gesto di sfida sacrosanto e gloriosamente inutile del furto dell'orologio da tavolo della sala degli ufficiali.

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Perché sei contro ogni cosa? chiede la sorella a Rohan/Boorman, amico fraterno del pestifero Hapgood. Che cosa ama Rohan, al di là del sogno biondo e irraggiungibile di Ophelia? Ama il cinema, ovvero la bugia suprema, la frottola più grande: lo ama più della Regina, della disciplina e della gerarchia militare, della patria e dell'esercito – sarà dunque condannato ad inseguire per tutta la vita lo spettro di un’immagine piu’ grande e piu’ giusta (un amore con cui poter parlare di cinema…), perche’ sempre rinnovabile, come quegli struggenti istanti in cui Boorman, sia quello dietro la mdp che quello sulla scena, non ha occhi che per Ophelia, che ferma il tempo e illumina lo spazio dell’inquadratura, ritornando ancora e ancora su di un movimento del collo, uno sguardo, un sorriso della ragazza.
Questo, Rohan lo capisce da piccolo, da quando assiste bambino ai numerosi ciak di una morte in acqua di un soldato tedesco su di un set in costume: da subito, le immagini della Storia fanno il paio con quelle del cinema, Casablanca, Billy Wilder, Hitchcock, in maniera lucidissima Rashomon (vanno a vederlo insieme, e ne viene fuori uno dei piu' veri e grandi dialoghi d'amore mai scritti: lui si infervora per la struttura ritornante, lei per lo stupro che rimane la costante di tutte le versioni del racconto…).

Cinema politico anche e soprattutto perche’ armato delle armi dinamitarde del classico, come e quanto il western militante di Tommy Lee Jones, questo diario goliardico e scorretto di un anno di resistenza interna alla leva e di straziante coming of age racconta ancora una volta dell’utopia piu’ grande, ovvero che il cinema, tutto quello che lo schermo ci racconta quando siamo bambini e ragazzi, non possa essere sbagliato, mai. Il cinema come arma di sovversione, tant’e’.
Il cinema, ci dice Boorman, e’ quel dispetto della sigaretta fumata di nascosto in adolescenza, il gesto anarchico di sostituire le parole del dettato militare da propinare ai soldati che si stanno addestrando in dattilografia ("ordini", "obbedire", "plotone" ecc) con argomenti ben piu’ triviali o articoli di giornale fortemente critici sulla guerra in Corea.
Nelle sequenze in “aula”, in queste insensate lezioni di spelling corale che diventano messinscena antimilitarista dalla potenza straniante quasi brechtiana, e’ nascosta l’urgenza giovanissima di quello che sembra il racconto nostalgico di un regista anziano che si lascia andare ai ricordi, ma che si dimostra invece a chi si riconosce simile a Rohan e Hapgood, e al loro continuo rimpallarsi battute di Bogart e affini, uno sguardo vicino, un'indicazione morale altissima.

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