CANNES 67 – The disappearance of Eleanor Rigby, di Ned Benson (Un Certain Regard)


Siamo pronti a scommettere una facile assunzione a status di piccolo cult indie: il film è in effetti sincero e spesso disarmato molto più di quanto lo siano i giovani autori di commedie metropolitane underground, non ammicca né forza la riconciliazione con lo spettatore, e ha dalla sua una New York clamorosa e scintille miracolose tra James McAvoy e Jessica Chastain

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L’idea dell’esordiente Ned Benson è quella di fondere insieme due sguardi e due traiettorie che hanno camminato in parallelo per un pezzo di vita, per poi perdersi continuando in realtà a cercarsi da lontano vagando con la speranza nascosta di scontrarsi ancora per una New York che partecipa alla vicenda e allo struggimento che ne consegue come riferimento continuo e multistratificato di tutti i set che la hanno attraversata, un po’ come intuiva la Frances Ha di Gerwig/Baumbach.
Benson le ha girate addirittura in due opere a parte, entrambe queste storie, quella di lui e quella di lei, e ora le ha montate insieme per questo suo lungo presentato sulla Croisette 2014. Il risultato ha dalla sua una piccola sequela di scintille miracolose che scoccano tra gli interpreti, veri strumenti solisti e dialoganti della partitura del film, e appunto una New York clamorosa (fotografata da Christopher Blauvelt, asso di questo cinema) che non fa la stupida stasera, incarnata in qualche modo dal padre-professore di William Hurt, che con tanto di taccuino in mano sembra lo scrittore di Brooklyn dello Smoke di Auster/Wang 20 anni dopo.

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Il salto in acqua disperato con cui Jessica Chastain, raro esempio contemporaneo di attrice in grado puntualmente di dimostrare un attaccamento al ruolo e una resa sulla scena assoluti e senza risparmio, si tratti di La madre come di Kathryn Bigelow, da’ inizio alle danze ricorda ovviamente quello, piuttosto simile, del Leonard di Joaquin Phoenix in apertura di Two Lovers di James Gray: ancora New York, appunto, seppure altri quartieri. Qui siamo tra i ristoranti e i bar della Grande Mela artistica, upper middle e intellettuale – come ha fatto lo strepitoso James McAvoy a finire da queste parti, in cui non ci saremmo sinceramente aspettati di incontrarlo?
A berci una birra con lui e Bill Hader ci rimaniamo volentieri però, probabilmente meglio con loro che a sorseggiare vino con la suocera Isabelle Huppert: McAvoy è il vero cuore del film di Benson, nonostante la performance tutta muscoli e nervi di Jessica Chastain, di cui dicevamo.

Nei tentativi grossolani e fallimentari del personaggio di McAvoy, Connor, di ritrovare l’amore della moglie che è tornata a vivere dai genitori dopo un tentativo di suicidio e non lo vuole più vedere (la coppia ha perso il figlio piccolo tragicamente, ci viene raccontato) salta prepotentemente fuori tutta una magnifica fragilità e una epidermica vicinanza proprio col giovane interprete dei nuovi X-Men, che arranca, sbanda e barcolla ma non si dà per vinto, a suo modo, pur di riconquistare l’amore della donna a cui aveva chiesto (lo vediamo in uno dei flashback un po' Cianfrance), in una delle prime uscite da giovani squattrinati, di avere “pietà di lui”.
Siamo pronti a scommettere per il progetto di Ned Benson una facile assunzione a status di piccolo cult indie: il film è in effetti sincero e spesso disarmato molto più di quanto lo siano i giovani autori di commedie metropolitane underground, non ammicca né forza la riconciliazione con lo spettatore, ma anzi si mostra, come nel pedinamento a distanza del finale, struggente e meraviglioso, con coraggio e una certa disillusa fierezza orgogliosamente non riconciliato.

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