#Cannes 77. Incontro con Meryl Streep
Kramer contro Kramer, La scelta di Sophie, I ponti di Madison County, La mia Africa, The Iron Lady, Don’t Look Up: l’attrice statunitense si racconta, divertendo e entusiasmando la platea di Cannes.
Un rendez-vous, e non una Masterclass: l’incontro con Meryl Streep, Palma d’oro onoraria alla carriera, moderato da Didier Allouch, ha segnato la “vera giornata d’apertura della 77° edizione del Festival di Cannes”, come ha precisato Thierry Frémaux aprendo le danze)ì.
È comparsa sul palco in punta di piedi: occhiali da vista, camicia larga e pantaloni neri, e dopo una standing ovation e applausi a non finire, Allouch ha scelto di rompere il ghiaccio con la domanda più semplice: “Allora Meryl, come sta?”
“Ho passato una mattinata difficile, perché ho fatto le tre di notte per parlare del film di Dupieux, Le deuxième acte. Mi è piaciuto molto.” Non fa riferimento alla Palma d’Oro onoraria che le è stata consegnata ieri; umile e alla mano, si presenta come una donna affabile: “Vivo una vita molto tranquilla e non sono molto rispettata a casa”, dice conquistando le risate del pubblico. “Ieri ho sentito un’ondata di emozione da parte del pubblico, che mi ha fatto un grande effetto. Mi vergogno un pò a dire che non riesco a stare al passo con tutti i film che escono, soprattutto per quanto riguarda il cinema francese. Sono così vecchia che ormai ho lavorato con tutti, e se esce un loro film devo vederlo perché altrimenti se poi li incontro e non gliene parlo sono una stronza. È complicato. Ho quattro figli e ho anche tanti nipotini. Non c’è il tempo per tutti questi film! Però ho visto ogni singolo episodio di Chiami il mio agente! Camille Cottin è fantastica!”
Si torna indietro nel tempo, al primo premio vinto a Cannes per Un grido nella notte. Era il 1989. “Mi avevano detto: ti serviranno nove bodyguard. Io ho risposto che non me ne serviva neanche uno! E loro continuavano, ti serviranno nove bodyguard! Poi mi sono resa conto… Una dozzina me ne servivano! Erano altri tempi, la sicurezza non era quella di oggi. Sono tornata nella mia stanza d’albergo tremante. E neanche mi ricordo com’è stato ritirare il premio. Avevo così paura… non sono una rockstar. Ho una vita molto noiosa, insomma non noiosa ma, molto tranquilla, ecco.”
Si comincia con Kramer contro Kramer, il film che l’ha portata al primo Oscar della sua carriera. “Per coloro che non hanno settant’anni, si tratta di un film che parla di divorzio. Era tratto da un romanzo-vendetta, scritto da Avery Corman, per rabbia, fondamentalmente. Nel libro non era chiaro perché lei lasciasse il marito e il figlio. Non gli interessava tanto raccontare questo, quanto il rapporto di quest’uomo, solo, alle prese con suo figlio. Ricordo che parlando del motivo per cui lei se ne fosse andata, Dustin (Hoffman) rispose subito, “io lo so!” E scrivemmo tutti, separatamente, io, Dustin e Benton, il discorso che lei avrebbe fatto. Vinsi io.”
“Uno di quei film che è più di un film, che prende parte ad un discorso più grande, sociale, commenta Allouch.
“Tutti i film fanno parte di un momento storico e lo raccontano; oppure sono fatti per fare soldi. Ma, in realtà, anche i film stupidi fanno parte dei loro tempi. Kramer contro Kramer, assolutamente, rappresentava quei tempi. Il femminismo, la risposta al femminismo…”
Non si rese conto girando Il cacciatore di quanto sarebbe poi diventato fondamentale nella storia della cinema. “Il mio lavoro era, come dire, a misura d’uomo. Io vengo dalla piccola New Jersey; avevo visto tante persone partire per la guerra in Vietnam. Il mio ragazzo era partito e tornato un eroinomane. Ero molto consapevole degli effetti, a livello intimo e sociale. Rispetto al mio personaggio, Cimino mi disse: “Non so cosa farle dire.” E mi permise di scrivere le sue battute; le mie battute. All’inizio mi lasciarono scrivere le mie battute… poi sempre meno. Erano i tempi in cui c’era solo una donna in un film.”
Il cacciatore è anche il primo film dove Streep canta. “Da piccola ho fatto corsi di canto e interpretazione dell’opera. Poi al liceo ho cominciato a fare la cheerleader e a fumare… fine dell’opera. Ma non mi piaceva così tanto. Preferivo il rock e Joni Mitchell. Alla scuola di recitazione amavo l’insegnante di canto. Eravamo dodici studenti e ci disse che ci avrebbe fatto cantare singolarmente e ci saremo commossi l’un l’altro. Molti la presero a ridere, ma si rivelò essere vero. Piangemmo tutti. Perché quando canti apri qualcosa, non c’entra niente la testa, è solo la melodia… è più forte di tutto il resto. Io cantai Lonely at the Top di Randy Newman, era una scelta dettata dall’ironia, perché ero al verde.”
La scelta di Sophie. Allouch non fa in tempo a nominare il film che la sala si perde in applausi. “La scena della scelta… abbiamo fatto solo due takes. Quello che vedete nel film è il secondo, perché nel primo la bambina non sapeva che l’uomo l’avrebbe portata via. È stata la sua reazione a cambiare ed essere determinante. Ora è una donna di successo, credo viva a Parigi, sì, l’ho letto da qualche parte. È molto in gamba. Tornando alla scena… non ne posso parlare! La dovevo fare in tedesco, ho imparato la lingua e non riuscivo neanche a leggerla, quella scena. Mi faceva così male. Non abbiamo fatto prove. Pakula e Almendros sapevano esattamente dove mettere la macchina da presa. Non c’è niente che ti possa aiutare per questo tipo di scene. Ti senti come in mare. Niente, non pensi a niente.”
Streep è passata a raccontare il suo metodo dell’attore. “Nella mia scuola di recitazione ho avuto tre insegnanti con tre tecniche diverse. Perché in tre anni, ogni anno ne licenziavano uno, quindi poi arrivava il prossimo con un metodo diverso. È interessante, mi viene da paragonarlo ad un sacco delle sorprese, hai tante tasche diverse da cui attingere… Ogni volta avviene la stessa cosa. La sera prima dico a mio marito: “Non so farlo, non ci riesco.” E lui mi risponde: “Dici sempre così, poi va sempre benissimo, non preoccuparti.” E io ribatto: “Non è vero, questa volta è diverso, te lo garantisco. Penso ci sia qualcosa che non funziona nel copione.” La sala scoppia in una grande risata, interrotta da Streep, che continua: “La cosa veramente difficile è quando devi passare una giornata intera a ripetere una scena dove esci dalla macchina e chiedi “Com’è andata la giornata?” con un tono dolce e gentile. È difficile perché vorresti ammazzare il regista che ti sta facendo ripetere la scena per la milionesima volta. Sì, è la ripetizione a essere la cosa più difficile.”
Ha parlato anche di Mike Nichols: “Ho pensato che neanche mi stesse dirigendo, ho fatto tutto da sola. Lui sul set scherzava sempre, faceva battute ma in realtà erano molto azzeccate. Dava a noi attori un senso di sicurezza. Sedeva accanto alla macchina da presa e quando rideva, aveva il volto ricoperto di lacrime. Era strategico, perché ci dava un senso di potere, ci sentivamo magnifici.”
Streep ha poi parlato di Spielberg, paragonando i metodi dei due registi. “Steven è un genio. Ha una tale comprensione della mise en scène, ha già in testa una musica. Mike Nichols mette tutto insieme dopo, durante il montaggio. Steven ci lavora lì per lì.”
Nella sua carriera ha lavorato con tutti, anche Sydney Pollack. E si è passato a parlare de La mia Africa. “C’è quella scena in cui Robert Redford mi lava i capelli nel fiume… Dovete sapere che c’erano due fattori abbastanza rilevanti: i leoni, californiani, che ci avevano detto essere domati ma non era così e l’animale più pericoloso dell’Africa, l’ippopotamo. Ecco, dal lato opposto del fiume c’erano tanti ippopotami che ci guardavano. E Robert cominciò a lavarmi i capelli non avendo idea di cosa stesse facendo. Venne Roy (Helland), il mio hair e make-up stylist di fiducia, e gli spiegò come fare. Al quinto take mi ero innamorata di Robert. Quella è una scena di sesso! Siamo talmente abituati a vedere gente che scopa, ma una scena così tenera e passionale è rarissima!”
Dopo quel film, Meryl Streep diventò “bancabile”. “Non ne ero cosciente ma la mia agente, sì. Io non ho mai voluto fare dei Blockbuster, poi ci sono stati film che lo sono diventati, come Il diavolo veste Prada o Mamma mia!. Ma non me lo aspettavo.”
Racconta la sua esperienza ne I ponti di Madison County, lavorando con Clint Eastwood. “È stato fantastico lavorare con Clint; ha fatto il film in cinque settimane. E ogni giorno se ne andava verso le cinque di pomeriggio per il suo corso di golf. Abbiamo fatto qualche prova, velocemente, e sono state quelle scene che ha poi usato nel film. Ha urlato solo una volta. Stavamo girando una scena in cucina e c’erano delle persone fuori che parlavano. Ha tirato fuori una potenza che ci ha lasciato increduli per il resto della giornata.”
Sempre attenta e pronta a denunciare le ineguaglianze nello star system, Meryl Streep ha affermato: “Abbiamo fatto degli ottimi progressi. Oggi, le più grandi star mondiali sono donne. È tutto molto diverso da quando ho cominciato io. I film sono delle proiezioni dei sogni delle persone. L’ho detta tante volte questa cosa ma in passato era difficilissimo per un uomo rivivere attraverso un personaggio femminile. Gli uomini non parlano la nostra lingua. Il primo film dove mi sono sentita dire da un uomo: “Ti ho capita, so benissimo che cosa hai provato”, è stato Il diavolo veste Prada. Ora I ruoli femminili sono fantastici. Anche perché tante attrici hanno anche le loro case di produzione. Io non posso: alle 19 stacco il cellulare. Il movimento Time’s Up è riuscito a cambiare qualcosa. Ha corretto il sistema in qualche modo, ha denunciato dei veri abusi.”
The Iron Lady, ben lontana dalle visioni politiche di Streep, l’ha portata al suo terzo Oscar. “C’erano tante cosi interessanti: quel film era un pò come Re Lear di Shakespeare. Racconta la discesa, la fine del potere, indipendentemente dal maschile o dal femminile. Mi è sempre interessato il volto rugato, è stato bello lavorare con Phyllida Lloyd su questo. All’età di otto anni, mi disegnai in faccia con una matita per gli occhi tutte le rughe che aveva mia nonna. Mia nonna mi diceva che si sentiva come me e allora io volevo sentirmi come lei. Mi interessava questo cerchio vitale, questa connessione. Ho una foto in bianco e nero di quel momento ed è buffo perché sembro io oggi.”
Ha interpretato anche la presidente degli Stati Uniti in Don’t Look Up. “Adam McKay è un regista fantastico ed è simpaticissimo: sa trasmettere tanti messaggi attraverso le sue battute.” Non si è ispirata a politici particolari per questo ruolo; più alle donne che conducono trasmissioni o telegiornali in America. “Ci sono donne vestite sempre in modo molto colorato, che hanno questo modo di fare, sapete? Ogni giorno quando decidiamo cosa indossare, stiamo già scegliendo che ruolo interpretare. Voglio adattarmi o farmi notare? Io oggi sono in nero, anche perché sono in hangover. Penso a De Niro in Innamorarsi. Ha provato 32 giacchette di chino! 32! E ognuna dava un’idea diversa, lo definiva in qualche modo.”
Commedie o drammi? Non ha preferenze. Le piace interpretare donne diverse da se stessa: “Alla fine, la cosa più interessante è che per quanto possiamo essere diverse, scavando in fondo, siamo molto più simili di quanto non sembriamo.”
E che cosa rende un regista un grande regista? “Un bravo regista dev’essere sicuro. Dev’essere qualcuno che vuole veramente essere lì e che riesce a coinvolgere completamente il gruppo. Ci sono grandi registi che rendono l’esperienza spassosa e divertente, ma non è essenziale questo. L’importante è che ti diano l’idea che vogliono veramente raccontare quella storia. E quando questa cosa non succede… beh, me ne torno a casa; cucino.”
Meryl Streep, prima di lasciare il palco, sempre in punta di piedi, felice e sorridente, ha ricordato agli aspiranti attori nella platea che non bisogna mai mollare. Bisogna sempre crederci: “basta un lavoro che va bene, un colpo di fortuna, e poi si parte!”