#Cannes2016 – American Honey, di Andrea Arnold

L’ambizione è quella di raccontare un’altra America, alternativa al Sistema, poetica e squallida allo stesso tempo, con frammenti di vita rubata dal sapore entomologico. In Concorso.

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Recuperare la frontiera. I suoi spazi. Forse una mitologia perduta appartenente agli anni Sessanta, quelli del cinema ma soprattutto della beat generation. Farlo attraverso lo sguardo e il corpo femminile di una diciottenne in fuga che si chiama Star (interpretata dall’astro nascente Sasha Lane) e che, per iniziare una nuova vita, fugge dalla sua disastrata famiglia dell’Oklaoma per aggregarsi in una comunità di giovani sbandati che percorrono l’America su un furgone. Per finanziare il viaggio senza meta all’interno del Paese il gruppo deve pero convincere ogni giorno i cittadini di piccole città di provincia ad abbonarsi ad alcuni magazine. Per Star questa diventa presto la sua seconda famiglia e la ragazza si infatua quasi subito del carismatico Jake (Shia LaBeouf), con cui inizia una relazione “clandestina”.

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Dopo il controverso e violento adattamento di Cime tempestose, la regista britannica sbarca in America con un progetto dilatato e semidocumentaristico sulla provincia americana, su un nuovo modello di (anti)american dream fatto di clandestinità on the road, macchina a spalla, improvvisazione drammaturgica e musica hip hop a tutto volume. L’ambizione è  quella di raccontare attraverso il coming of age femminile di Star un’altra America, alternativa al Sistema, poetica e squallida allo stesso tempo, con frammenti di vita rubata dal sapore entomologico.

La Arnold decide quindi di adottare come in passato un punto di vista immersivo e si infila nella sua comunità composta da questi anarchici figli di hippie a cui “nessuno ha mai chiesto di raccontare i propri sogni”. I suoi ribelli sono giovani entusiasti e senza futuro che per inseguire la loro fuga utopica finiscono per sottoporsi a una logica di mercato incentrata sulla vendita e sulla persuasione, completando un circolo vizioso capitalistico in verità molto interessante sulla carta. Per alimentare questo sguardo la macchina da presa dell’autrice di Red Road sta attaccata ai volti e alle esuberanze dei ragazzi. È un punto di vista da dentro che pero’ fa fatica a uscire dall’idea progettuale e a far respirare lo spettatore. Forse per colpa di una durata eccessiva (160’) American Honey sembra ripetere all’infinito la sua formula ossessiva di cinema indie, ma la sensazione dominante – nonostante la ricercata dispersione delle sequenze e la non chiusura di un finale aperto – è  la mancanza di un autentico centro emotivo. Le route texane per quanto battute in lungo e in largo in quasi tre ore di film non sono (piú) le strade di un cinema libero e intenso. Siamo solo al quarto lungometraggio in 10 anni eppure qualcosa sembra essersi perso nell’approccio filmico della cineasta. Forse un’eccessiva ambizione o fiducia nei suoi mezzi, oppure semplicemente l’idea confusa di un progetto sbagliato, che non sa trovare nell’accumulo di materiale girato una sua sensibilità, ma anzi si scopre pericolosamente vicino alle opere di cineasti discutibili come Larry Clark e Harmony Korine. Magari con meno morbositá, ma con esito ugualmente inerte.

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