#Cannes2016 – Apprentice, di Boo Jungfen
Il regista si avventura in un discorso sulla pena di morte che rifugge dal puro e semplice partito preso. Ma ben presto il film entra in un’impasse (carceraria) insormontabile. In Un certain regard
Il braccio della morte visto dall’altra parte. A partire dalla psicologia e le emozioni del boia. Qual è l’atteggiamento nei confronti del compito, quali i confini e gli attriti tra il senso del dovere e le questioni morali, tra la giustizia che punisce e quella che comprende e recupera?
Il giovane Aiman è guardia penitenziaria in un carcere di massima sicurezza. Viene preso in “affidamento” da Rahim, il boia in capo, che ha anche il compito di accompagnare i detenuti negli ultimi giorni di vita. Rahim insegna ad Aiman quello che sa, gli trasmette la sua esperienza, dalla necessaria attenzione per i condannati, che quasi accudisce nell’accompagnarli nell’ultimo passaggio, ai dettagli più tecnici, come far pratica sui nodi del cappio. Tra i due sembra nascere quasi un rapporto padre/figlio. Ma è proprio nel coinvolgimento emotivo il punto debole di Aiman, che ha un passato familiare e personale tormentato.
Il giovane regista Boo Jungfen, al secondo lungometraggio, non ha paura delle grandi questioni. E si avventura in un discorso sulla pena di morte che rifugge dal puro e semplice partito preso, dalla dimostrazione di una tesi precostituita, per dar invece conto della complessità dei punti di vista e delle prospettive, delle implicazioni morali e giuridiche del problema. Ha l’esigenza, dunque, a fronte delle granitiche certezze dell’istituzione, di lavorare sulle scissioni e i dubbi del singolo. E in questo senso, è efficace lo scavo nel personaggio di Aiman, il modo in cui riesce a farne emergere i grumi irrisolti, le contraddizioni e i travagli interiori. Più schematico, invece, è il modo in cui si struttura il conflitto drammatico intorno al rapporto tra Aiman e Rahim, che progressivamente si chiude in dicotomie sempre più astratte: ordine ed eccezione, responsabilità “sociale” del ruolo e insofferenza individuale. Che tanto potrebbero assomigliare alle dicotomie di Singapore, che appare ancora sospesa tra due mondi, tra una modernità funzionale e organizzativa e un sistema di valori tradizionale. Alla fine, il paradosso: quanto più si lavora sul rapporto dei personaggi, quanto più si vuole dar loro un’anima, tanto più essi appaiono come semplici funzioni bidimensionali di un discorso. Sembra quasi che il film entri in un’impasse carceraria, anche visivamente, con gli interni cupi della prigione e dell’appartamento di Aiman, con i suoni amplificati delle chiavi, dei cancelli che sbattono, della rabbia che monta. Per uscire dallo stallo, Boo Jungfen è costretto a ricorrere al colpo di scena, al deus ex machina di una scena action che possa condurre alla risoluzione. Ma è solo un rinvio. Lo sa Aiman. E lo sa il regista, che, alla fine, rinuncia a prendere posizione e ci lascia, con un altro facile effetto drammatico, nel buio dell’indeterminatezza.