#Cannes2016 – Bruno Dumont, Ma Loute e’ una storia universale
Conferenza stampa della nuova sfrenata commedia dell’autore di P’tit Quinquin, stavolta con Fabrice Luchini, Valeria Bruni Tedeschi, Juliette Binoche. In Concorso sulla Croisette
La via alla commedia di Bruno Dumont, svelata nel 2014 sempre a Cannes con la serie P’tit Quinquin, si rinnova sulla Croisette con questo Ma Loute, presentato stamani in Concorso. “In realta’”, ha spiegato il regista in conferenza stampa, “il lato comico mi aiuta a rendere accessibile la stessa identica violenza sociale che ho raccontato nei miei film precedenti. Mascherarsi puo’ essere un’esperienza liberatoria e salutare, approcciarsi al grottesco come in un romanzo inglese o una storia di Dostoyevsky”.
Ma Loute ha tante anime, e’ una storia d’amore, un thriller crudele, un film “colorato”, come lo definisce Dumont: “non bisogna mai cedere alla tentazione di realizzare immagini troppo belle. Lo stile del film e’ ispirato a fotografie scattate all’inizio del Secolo scorso, ho dovuto forzare le possibilita’ del mezzo digitale verso un iperrealismo che mantenesse una sensazione di plausibilita’ senza risultare troppo contemporaneo. Volevo che la storia sembrasse plausibile per poter catturare gli spettatori nel racconto.”
Sulla scena Juliette Binoche ritorna a lavorare con Dumont dopo Camille Claudel, 1915 ma i riflettori sembrano essere puntati soprattutto su Fabrice Luchini, incontenibile e su di giri anche in conferenza: “Bruno da vita a quello che ha in mente attraverso di te, sei in suo potere. Non aggiunge troppe spiegazioni psicologiche o filosofiche con gli attori, perche’ adora portarli in queste situazioni assurde ed estreme mantenendo una sensazione di verosimiglianza.” Gli fa eco Valeria Bruni Tedeschi, che racconta di aver dovuto “inghiottire i sentimenti e gli impulsi istintivi” per fare un grosso lavoro sull’interiorita’ e i mezzitoni, imponendosi quasi di “non recitare”.
Dumont spiega di aver sempre lavorato girando al microscopio, ma adesso e’ passato ad usare un telescopio, per poter davvero vedere attraverso l’immagine. “L’investigazione, qui come in P’tit Quinquin, e’ un’allegoria del mio metodo di lavoro. Il microscopio rimango io, in qualche modo”, afferma il regista. “Ogni dramma portato all’eccesso diventa una commedia, ma bisogna essere molto assennati per fare in modo che l’opera raggiunga il punto larger than life. Per essere veramente universale, un film deve essere il piu’ local possibile. Quello che e’ vero ad un livello locale, diventa metaforico su scala universale, come succede ogni volta che presento un mio film in Asia o in Giappone. Non si dovrebbe mai pensare a costruire film perche’ siano strutturalmente universali, ad esempio i cosiddetti ‘film europei’ sono terribili.”