#Cannes2016 – Hissène Habré, une tragédie tchadienne, di Mahamat Saleh Haroun

Fuori Concorso una nuova riflessione dell’autore di Daratt sul confine labile che si instaura tra perdono e vendetta. Un cineasta potentemente problematico, che investe le nostre posizioni morali

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Affronta di petto la storia del suo Ciad, Mahamat Saleh Haroun, questa volta senza il filtro delle traiettorie di genere ma sposando la formula del documentario di “espiazione collettiva”, per cosi dire, nella derivazione canonizzata dagli exploit di Joshua Oppenheimer.
Alcuni dei tentavi imbastiti dal grande cineasta di Daratt non possono che ricordare gli esperimenti dell’autore di Act of killing, eppure nel film di Haroun gli sforzi strutturati per far collidere vittime e carnefici in un nuovo incontro davanti all’obiettivo della sua mdp sono destinati puntualmente a fallire, non riuscendo ad innescare quella scintilla di emozione anche potentemente ambigua e costruita dei lavori di Oppenheimer. Non sembra un incidente quanto quasi una precisa volonta’ di rimarcazione estetica e politica.
Questo e’ perche’, se le dinamiche di dissepoltura dell’orrore possono ricordare quelle del giovane documentarista britannico, lo sguardo e le intenzioni di Haroun vanno decisamente da un’altra parte, a proseguire una riflessione che il regista porta avanti dagli esordi fino a quel Grigris presentato sempre a Cannes nel 2013.

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Hissène Habré, dittatore sanguinario del Ciad responsabile dal 1982 al 1990 di circa 40000 morti per tortura e omicidio politico attraverso l’arma militare del suo corpo speciale di polizia, quella DDS addestrata con i finanziamenti di USA e Francia, e’ il protagonista della ricerca di Haroun sin dal titolo del lavoro, ma non appare mai, tranne una fugace fotografia nell’incipit e un video di repertorio dal recente processo per crimini contro l’umanita’ al tribunale speciale, in cui pero’ e’ di spalle.
E’ un altro, il fantasma a cui da’ la caccia Haroun nelle decine di chiacchierate con sopravvissuti ad anni di prigionia nei penitenziari della morte, in cui hanno subito quotidianamente le torture dei servi del regime che sulla scena rivivono unicamente attraverso schizzi disegnati a matita su foglio bianco, e nei dettagli delle conseguenze lasciate sul corpo e sull’organismo di questi uomini sfregiati, mutilati nella carne, nella dignita’ e nello spirito.

Ad Haroun interessa ancora una volta in realta’ quel confine labile e sempre suscettibile di continui scossoni, che si instaura precisamente a meta’ strada tra perdono e vendetta. Una volta deposto il Mostro, e ottenuto che venga processato per le sue atrocita’ (la sentenza e’ attesa per la fine di questo maggio…), qual e’ il sentimento piu’ forte delle vittime nei confronti di aguzzini che ora fanno parte della stessa comunita’ e passeggiano per le stesse strade, da uomini liberi? Rendere la violenza subita, o decidere al contrario di perdonare?
La risposta non sempre e’ cosi conciliante come saremmo portati a pensare, il quesito investe la posizione morale e le convinzioni etiche di ogni spettatore, e la maniera con cui Haroun si pone nei confronti delle confessioni degli uomini con cui fa dialogare il suo film ne conferma la statura di autore fortunatamente problematico, in grado di lavorare con un’essenzialita’ cristallina sulle emozioni piu’ primordiali, arcaiche e sedate della nostra essenza di esseri umani.

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