#Cannes2016 – Julieta, di Pedro Almodóvar

Tutti i temi cari ad Almodovar tornano in un film malinconico e discreto, certamente un po’ stanco, ma comunque necessario per capire dove sia finito il cinema che colorava gli anni ’80 e ’90

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Pedro Almodóvar ricorda il suo cinema, ma ha il coraggio di vivere nel presente. Si potrebbe sintetizzare così Julieta (libero adattamento del romanzo di Alice Munro Runaway):  film intimo e silenzioso, animato da fantasmi di memoria e lettere da spedire al proprio passato, irrisolto e frenato proprio come la vita della sua protagonista. Julieta è l’eterna musa del cinema di Almodóvar ri-vista oggi: una Pepi senza più Luci e Bom, una donna che ha oltrepassato di molto l’orlo di una crisi di nervi e che ha avuto già troppi abbracci spezzati nella vita. Noi la incontriamo mentre inizia a ricordare, camminando per una Madrid bellissima e discreta, in una flânerie continua che produce suggestioni da mettere su carta. Questa donna sta scrivendo una lettera al suo passato e il ricordo si incarna nella splendida Adriana Ugarte che intepreta Julieta vent’anni prima, su un treno, diretta verso la sua prima supplenza scolastica. Un treno dove il dispositivo narrativo torna a funzionare a pieno regime intrecciando trame noir e destini mélo: la prima inquadratura del “ricordo” ci immerge negli anni ’90, nel cinema colorato di Almodóvar, con i finestrini che riflettono immagini-in-movimento e vite-in-divenire (evidente finestra ophulsiana sul cinema in una lettera da una sconosciuta che prima o poi sarà recapitata…).

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Su quel treno, guarda caso, Julieta verrà a contatto con la morte (un anziano signore tenta di dirle qualcosa, poi si suicida) e con l’amore (incontra un giovane e scatta subito il labirinto di passioni), la sua vita cambia, nasce una bambina, ma dopo qualche anno il rapporto d’amore si spezza improvvisamente… e con esso il legame madre-figlia si complica sino alla stasi. Fermiamoci qui, anche noi. Perché il passato continuerà a tornare nella mente della cinquantenne Julieta (una altrattanto brava Emma Suàrez) che proprio non riesce a rassegnarsi a quella brusca interruzione, non riesce a tornare alla vita e quindi non riesce più a produrre il cinema. Il nostro film, nel 2016, è fermo in attesa di una nuova scrittura.

jullieta2Pedro Almodovar, quindi, ricorda. E chi meglio di una protagonista femminile che vuole tornare a vivere (Volver) pensando ai suoi vent’anni (e a tutte le leggi del desiderio) può riflettere sul suo presente? Tutti i temi cari ad Almodovar – l’amore e la morte, la passione e la perdita, la maternità e il tradimento, la nascita e la rinascita, la trasgressione e la tradizione, i colori e il bianco-e-nero, la cinefilia e il viaggio – vengono riproposti in un film malinconico e discreto, certamente un po’ stanco, ceramente incapace di riattivare i travolgenti gorghi sentimentali di un tempo (da Parla con lei a questo parla di lei), ma comunque terribilmente necessario per capire dove sia finito il cinema che colorava gli anni ’80 e ’90. E li riscopriamo improvvisamente così lontani, così cambiati, così passati quegli anni. Li riscopriamo guardandoli dal finestrino di un treno che tenta disperatamente di riattivare immagini e racconti, colori saturi e sentimenti solidi, per dare un senso nuovo al presente. Ecco allora: la sincerità di questo film “minore” merita il giusto rispetto, perché Almodóvar non ha più paura di scoprirsi invecchiato, ponendosi oltre gli abissi teorici di La pelle che abito o le calcolate operazioni-nostalgia de Gli amanti passeggeri per tentare con coraggio di ipotizzare nuove strade possibili per il suo cinema. Un campanello suona, Julieta riceve una lettera, il viaggio ricomincia altrove?

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