#Cannes2016 – Loving, di Jeff Nichols

Loving convince solo a metà perchè non ha mai il coraggio di entrare nella carne viva della materia che tratta, accontentandosi di “raccontare” davanti al caldo camietto del biopic autoriale. Concorso

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Jeff Nichols doveva passare da qui. Doveva prima o poi cercare di filmare il controcampo del suo interessantissimo cinema-parabola, delle sue allegorie-paesaggio, dei sui personaggi-alieni esiliati e allontanati dal giardino del Mondo. Un controcampo che trovasse nelle radici d’America il motore propulsivo, la ragion d’essere archetipica, il meccanismo sociale e culturale che innesca la sua evidente ricerca di autorilità cinematografica. Ha trovato il soggetto adatto in un documentario del 2011 di Nancy Buirski (The Loving Story), che racconta la vera storia di Richard e Mildred Loving: lui bianco e lei nera, in America, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60… innamorati prima e innocentemente sposati poi. La prima sequenza del film, che sintetizza il loro sentimento, è molto bella. Ma subito qualcosa turba l’idillio, perché “la legge divina ha reso i colori diversi e non bisogna mischiare” dice un giudice del luogo, quindi anche la legge terrena adegua nella natia Virginia: l’assurda sentenza è di un anno di carcere per entrambi, con sospensione della pena per 25 anni a patto di lasciare definitivamente i confini dello Stato. La radice puritana dei padri fondatori reclama i suoi statuti: ci si arrocca nella fortezza precostituita e si esplellono i non allineati. I due coniugi non hanno scelta, formano la famiglia in più posti, tra città e campagna, tornando infine all’idea di Frontiera che anima l’altra faccia dell’America: lo spazio aperto e la casa nella prateria è sempre l’deale numero uno a cui tendere (e non a caso Nichols riprende ossessivametne Richard Loving costruire case su case con le proprie mani).

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Ecco allora: questo è un film sin troppo chirurgico nel riproporre archetipi riconoscibili e radici prime a cui attingere. Un film consapevolissimo dei decenni di cinema che ha alle spalle, mettendo evidentemente tra parentesi il classico di Douglas Sirk e le riletture di Todd Haynes: dal duro scontro interculturale alle ferite ancora aperte della schiavitù, dalla lenta battaglia per i diritti civili al grande cinema che ne è conseguito, Loving sottintende tutto e insegue solo due persone nella loro privata odissea d’amore per costruzione una famiglia. E qui arriviamo al punto. Se il cinema di Nichols ha sempre configurato ossessioni e paranoie (sopran)naturali iniettate come un virus esplosivo nel paesaggio periferico dell’America profonda, Loving ne diventa nuovamente il perfetto controcampo perché questo demone non ha più un volto nascosto. Non c’è più nessun mistero nella radici della paranoia: i due coniugi vengono subito divisi nel loro letto e confinati in una cella, i radicati istinti sociali sono immediatamente palesati dalle prime sequenze. Tutto viene visto, molto viene detto. Cosa ci rimane? Solo momenti di quotidiana bellezza: “sono io che devo prendermi cura di te” (dice Richard a Mildred), non l’avvocato, non la legge, non tutti gli altri. Nichols, del resto, è da sempre molto bravo a cogliere i piccoli drammi umani abbracciando i suoi personaggi nell’inquadratura…

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Ruth Negga e Joel Edgerton in Loving

I problemi, allora, arrivano quando si deve allargare il discorso al campo lungo della Storia: questo film ci appare perfettamente inserito in una logica istituzionale (alla The Help e tutto sommmato anche alla Selma) di sottile rimozione del trauma nella coatta risoluzione di ogni conflitto. Concedendo pochissimi scarti alla problematizzazione contemporanea di quegli stessi problemi. Gli echi del cambiamento non sono mai frutto di un investimento emotivo contingente (ricordate il bellissimo Beloved di Demme?), ma arrivano significativamente sempre da lontano, visti in Tv mentre si stira o per telefono mentre si mangia. Ecco che il film cade in un evidente schematismo preconfezionato: da una parte il Sud arcaico e violento, dall’altra gli avvocati ben vestiti dell’illuminato Est che arrivano a portare il verbo kennediano. Ma nel 2016 ci serve urgentemente evadere da questa semplificazione, ci serve disperatamente lo sguardo di Joel Edgerton sulle cose: quello sguardo perturbante, che non si fida di nessuno, che percepisce le derive dello politica-spettacolo e le tronca sul nascere, uscendo sempre fuori dalle case che costruisce e perdendosi nella Frontiera in brevi e preziosi frame. Il film convince solo a metà perché viaggia costantemente su questi due binari paralleli e non ha mai il coraggio di entrare nella carne viva della materia che tratta, accontentandosi di “raccontare” davanti al caldo caminetto del biopic autoriale. L’ideale di un cinema civile/popolare che coroni il cambiamento è nobile e sacrosanto, ma deve comunque far percepire tutti i tifoni e i turbamenti prima di trovare riparo (di nuovo, take shelter…) in una casa comune. Jeff Nichols, purtroppo, ancora non ci riesce del tutto.

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