#Cannes2016 – Paterson, di Jim Jarmusch

Jarmusch dà alla poesia il pane della sua immagine quotidiana. Non trova altro senso che il vuoto, ma come in un pensiero zen, ne riconosce la precaria e magnifica bellezza. In concorso

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Voglio svegliarmi presto, solo per amarti.

Paterson, Stato del New Jersey. Piccola città di 149000 abitanti, fiorente centro di lavorazione della seta nell’800, patria misconosciuta di poeti, comici, anarchici regicidi. Oggi una città come tante altre, piantata in un punto tranquillo del mappamondo. È come in quel gioco di parole crociate de La settimana enigmistica, “Una gita a…”. Punti di interesse e incroci, parole che si materializzano nello spazio bianco e si intersecano tra le caselle nere. Case basse, il fiume, un ponte, una cascata, strade di provincia, ordinate costruzioni di mattoni rossi, che assomigliano ai resti di mura e glorie antiche. Il passato, probabilmente, ma senza più un grande futuro da immaginare. Se non fosse per le meteore, sempre in agguato.

Paterson, autista di autobus, nato e cresciuto a Paterson. Perfetta fusione tra luogo e personaggio. Una sveglia magica, che suona nella sua testa ogni giorno, tra le 6:10 e le 6:30. Al fianco una splendida e dolcissima ragazza, Laura. Colazione, lavoro, ritorno a casa, cena, passeggiata col cane, birra al bar di Doc prima di andare a dormire. E poi la poesia, quasi una al giorno, scritta e ordinata in un quaderno privato, custodito in silenzio. Variazioni minime. Senza un futuro da inseguire. Paterson di Paterson. Paterson al quadrato.

 

Paterson2

La vita è un mistero. Si vive ogni giorno come se il tempo non avesse peso reale, come se fosse solo un segno d’agenda, lancette in moto circolare, che regolano i momenti e scandiscono le azioni. Per lo più le stesse. Ma il tempo esiste. Tra la vita e la morte c’è una cavolo di parabola che descrive una differenza. Eppure proviamo a moltiplicare questa vita (e questa morte) per due, per tre, per quattro, eleviamola al quadrato, al terza potenza, a un milionesimo di potenza. Non sono un matematico. Ma forse non rimarrebbe più che il semplice giro di lancette. L’infinita ripetizione circolare.

Paterson ripete ogni giorno lo stesso percorso, col suo vecchio autobus. E, alla fine, visto dall’alto, da quella prospettiva perpendicolare che lo sorprende a letto, il suo cammino assomiglia a un muoversi in tondo. Come il giradischi che continuava a ruotare, indifferente, in Only Lovers Left Alive. Al fondo, c’è un senso di tristezza difficilmente digeribile, ben dipinto sul volto di Adam Driver. Addirittura di angoscia, come pare suggerire la musica degli Sqürl, il gruppo di Jarmusch e Carter Logan. Perché è come se nulla avesse più senso, una direzione di marcia capace di distinguere le traiettorie individuali. L’ambizione non ha senso. Neppure l’amore, che sembra promettere la felicità, ma poi è tutto un patteggiare. Patteggiare la solitudine del nostro spazio interiore, la nostra ritrosia con l’entusiasmo invadente, ingenuo di lei. Patteggiare i nostri gusti con la quinoa e la torta ai cavoletti di Bruxelles. Rinunciare al nostro odio per il cane per la gioia di lei. I don’t like you, Marvin. E Marvin ricambia. Accettare l’idea folla di costruire qualcosa, un interesse comune, un’impresa commerciale, una casa, una famiglia. Fare finta che ci sia uno scopo. E poi fare i conti, calcolare, limare qui per aggiungere altrove. Far quadrare il cerchio. Ancora una volta. Sempre cerchi, come quelli che Laura dipinge, in nero, sulla sua bella tenda bianca. Hai un talento per i cerchi. Quest’amore assomiglia a un’apnea. Eppure, senza amore, avrebbe senso qualcosa?

 

Paterson1Il fatto è che, vista dalla prospettiva bianca della schiuma, la birra sembra ferma, immobile. Eppure, sotto, i gas si aprono in bolle che salgono verso la superficie (e non scendono, come nel paese del grande gigante gentile). Anche il cinema di Jarmusch sembra immobile. Assomiglia a un deposito, in cui trovi Dante Alighieri e Petrarca, Iggy Popp e Lou Costello Pinotto, i versi di William Carlos Williams e la Questione Sociale di Gateano Bresci, la mano che uccise Umberto I di Savoia. Tutti i riferimenti sono le tracce di strati e strati di cose e saperi accatastati gli uni sugli altri, alla rinfusa. E per il resto, qui come non mai, succede poco e niente. Non c’è un plot da raccontare. E le regole sono diventate minime. Campo, controcampo, fuoricampo, interno e esterno. Sembra cinema in bianco e nero, come L’isola dell’amante perduta. Privato del colore. Eppure il colore c’è, la sfumatura, la differenza. La poesia, quell’atto di creazione inutile, senza scopo, a cui è tanto legato Paterson e che si materializza nei versi di Ron Padgett, serve proprio a questo. A scavare nel deposito, a trovare la rima interna tra le cose, a far uscire un segno da esse e a ridonare a esse un nome. Jarmusch dà alla poesia il pane della sua immagine quotidiana. Probabilmente non trova altro senso che il vuoto, ma come in un pensiero zen, riconosce in questo vuoto la precaria e magnifica bellezza. Le infinite possibilità di una pagina bianca. E la forza di ricominciare, ogni giorno, preparandosi alla morte.

L’esistenza è rugiada lo so,

è davvero solo rugiada.

Eppure, eppure…  

Tradurre una poesia è come farsi la doccia con l’impermeabile. Eppure io ci provo. Questo è quel poco che ho capito e che ho scritto. Avrei dovuto lasciare la pagina bianca. Ma è quel che ho vissuto. Non è molto, lo so. Ha ha.

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