#Cannes2016 – Sieranevada, di Cristi Puiu

È come se Puiu non sapesse bene dove stare, come “prendere posizione” e riavvolgere il gomitolo della storia. Guarda. E sovverte la rabbia del mondo in una meravigliosa risata. In concorso

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Si apre con una scena lunghissima, un uomo, una donna, una bambina, l’auto che blocca il passaggio e un furgone della DHL, con il corriere che suona il clacson spazientito. E poi l’uomo che sale in macchina, fa il giro dell’isolato e torna, la donna con la bambina che attende all’incrocio. Non si capisce bene quale sia il senso esatto di tutto ciò, quale direzione narrativa abbiano tutte queste azioni, fondamentalmente irrilevanti, riprese da un angolo di strada, come se a guardare fosse un passante fermo al palo mentre fuma, una dopo l’altra, le sue sigarette (e quanto si fuma, viva dio, in Sieranevada). Se non che questo long take è solo il primo di una serie estenuante di piani sequenza. E assomiglia, perciò, a una premonizione, a una dichiarazione di metodo. Serve proprio a istituire questo sguardo, mai oggettivo e mai soggettivo. Uno sguardo improprio, non perfettamente identificabile, eppur non indifferente. Lo sguardo del morto, direbbe Puiu, di un morto ancora vivo e capace di far sentire la propria presenza. Magari lo sguardo del fantasma di Emil, il vero protagonista mancante, il capofamiglia morto da quaranta giorni, la cui anima ancora si aggira tra le stanze di casa, nell’attesa di essere finalmente liberata dalla commemorazione rituale dei suoi cari.

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sieranevada2Ma, è ovvio, al di là di ogni ancoraggio narrativo, che sia proprio il punto di vista di Puiu a scegliere questa condizione di presenza viva, concreta, tangibile, eppur passiva, tanto da rinunciare quasi a dettare i ritmi dell’azione, a regolare le posizioni e i rapporti tra i personaggi. Pura osservazione che si avvinghia al tempo reale della storia. Ma un’osservazione che lascia trasparire sempre la posizione dell’osservatore, la sua inquietudine e il suo smarrimento, la sua incapacità di essere al posto giusto, al centro esatto degli eventi, di chiarire le cause e gli effetti, le linee di connessione e di tensione, i loro sviluppi. Uno sguardo che, il più delle volte, ha una visione parziale, precaria, si affaccia nelle stanze, ma trova l’ostacolo delle porte, dei muri, dei tanti personaggi che si aggirano per il vecchio appartamento che costituisce il set principale del film.

 

sieranevada3Puiu fa parte della famiglia che racconta, ma si sente una specie di intruso, sembra quasi aver voglia di scappare, di essere altrove pur non di assistere ai litigi estenuanti, ai piccoli drammi quotidiani. Si ferma in cucina, tra una sigaretta e un’incredibile discussione sul comunismo e la religione, entra in sala da pranzo, si affaccia in qualche camera da letto. Ma il più del tempo indugia nel disimpegno, mentre i personaggi attraversano i corridoi tra una porta e l’altra, mentre il pope celebra messa e la radio, nascosta dio solo sa dove, continua a mandare avanti la sua colonna sonora infinita. Attende il pranzo, ma è un supplizio interminabile, un continuo rinvio nella normalità del caos.

È come se Puiu non sapesse bene dove stare, come “prendere posizione” e riavvolgere il gomitolo della storia, quella maiuscola, dell’attacco a Charlie Hedbo, dell’11 settembre, e quella minuscola, della gente “normale”, delle famiglie che si uniscono e si tendono nel conflitto, nel tradimento e nell’incomprensione. Non c’è possibilità di ricostruire e trasmettere una verità, quale che sia, di condividere una memoria, di stabilire torti e ragioni, al di là delle versioni ufficiali e delle ipotesi complottistiche, al di là delle menzogne, delle ipocrisie e dei silenzi. E allora tutto scivola nel leggero nonsense (come già il titolo che non ha alcun appiglio reale) e ci si ritrova nel mezzo, un po’ al lato, ci si scopre a guardare, attoniti, divertiti e impotenti. Come Lary, che non sa e non vuole accettare la responsabilità di capofamiglia di cui gli altri pretendono investirlo, pur sapendo di fatto che quel ruolo sarebbe solo un’apparenza, una formula vuota. Lary non governa niente, neanche la sua vita, il suo rapporto di coppia in pezzi. Prende i calci in culo e tace. Ed è testimone di questa rabbia che scorre dappertutto come una falda sotterranea, come il sangue segreto di una società anarcoide, in cui l’unica vera istituzione è un matriarcato antico, “latino” e meridionale. L’uomo propone e la donna dispone… O forse non c’è più nulla da proporre. L’uomo resta lì, a tavola. Disinnesca la rabbia e l’infelicità con una meravigliosa risata. E pensa al ricordo come a una possibilità di sovversione, che riporti i morti in vita.

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