#Cannes2016 – The BFG, di Steven Spielberg

Quello di Spielberg è un cinema che si scopre tanto più bambino quanto più è gigante. E viceversa. È un cinema di invenzione. Che trova in Roald Dahl uno slancio di libertà ulteriore. Fuori concorso

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Nella miniera di Roald Dahl e dei suoi “piccoli” racconti per l’infanzia ognuno può trovare ciò che vuole. C’è chi cerca le fondamenta per la struttura scenografica del suo mondo, come Burton, chi una via di fuga dalle proprie trappole per volpi, come Wes Anderson. E chi, come Spielberg, un altro sogno di condivisione, capace di vincere il mostro della solitudine. Perché forse, il segreto della gentilezza è proprio la solitudine, con tutto ciò che si porta dentro e dietro. Il bisogno di non sentirsi più orfani, di immaginare evasioni, il desiderio, e il timore che lo accompagna, di stabilire un contatto con l’altro. Con la delicatezza del tocco

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Il grande gigante gentile è una storia di sogni. Di sogni inseguiti e catturati, di sogni realizzati e fabbricati. È un racconto di speranza. La speranza di superare di slancio la fatica della realtà. E proprio questo slancio spinge Spielberg a dare libero sfogo a tutta la potenza fantastica del suo cinema, che, dopo una serie di monumentali – ma non certo freddi – film “adulti”, può lasciarsi andare a briglia sciolta, con la stessa impalpabile leggerezza che sosteneva le evoluzioni de Le avventure di Tintin e dei film più liberi, quelli disancorati dalla zavorra del reale. Ma non c’è, poi, vera differenza tra War Horse, Lincoln, Il ponte delle spie e Il grande gigante gentile, al di là dei toni, delle prospettive, del peso stesso dei discorsi messi in campo. Sì, negli ultimi film assumeva un ruolo preponderante la parola, l’espressione costitutiva di un’altra idea democratica di mondo. Eppure anche qui la parola ha un peso rilevante, come l’unico filo possibile di una trama comune. Già a partire dalla lingua inventata da Dahl per il suo gigante, la sgrammaticatura e la dislessia che si trasformano in fuoco d’artificio fantastico.

 

the bfgMa il filo rosso sta soprattutto in altro. Nel fatto che, anche quando il cielo si fa più cupo e la terra pesante, il richiamo della favola è sempre irresistibile, quel desiderio di scoprire la meraviglia segreta di questo mondo, a partire da qualsiasi galassia, sia essa la realtà o la finzione, live action, animazione o motion capture. Quella meraviglia che riposa in ogni angolo e che attende solo di essere svelata oltre il velo opaco della Storia, delle guerre, dei conflitti, dei muri. Lo stupore a bocca e a cuore aperto che si dipinge sul volto di Sophie, della piccola Ruby Barnhill, e, con più etichetta, su quello della regina d’Inghilterra, è proprio ciò che permette di superare la paura e la differenza, di ritrovare l’umano nell’inumano, il soffio caldo di gentilezza nascosto nella mostruosità della solitudine, nell’invisibilità forzata dell’alieno. E tutto ciò è figlio della stessa tensione sognante che consente al cavallo di guerra di mandare all’aria le trincee, che distende in un magnifico sorriso le mille rughe di Tommy Lee Jones/Thaddeus Stevens, che dà a James Donovan una fede assoluta nella capacità della parola di mediare, di creare fratellanze insperate. Stoiki mugik. Quello di Spielberg è davvero un cinema che si scopre tanto più bambino quanto più è gigante. E viceversa. È un cinema di scoperta. E quindi di pura invenzione, che apre e spiega tutti gli spazi in un movimento continuo, che dona ritmo al tempo grazie alla libertà immacolata della trovate, al dono di una forza propulsiva tutt’interna alle immagini. È un passaggio costante dall’ignoto al familiare, dall’estraneo al proprio, per cui, ogni volta, la macchina spettacolare si trasforma in un segreto intimo, privato. Per quanto l’avventura ci porti lontano, ci troviamo, alla fine, ancora a casa. Davanti a un sorriso che ci accoglie.

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