#Cannes2016 – The Transfiguration, di Michael O’Shea

Attesiso esordio in Un certain regard, l’horror indie di O’Shea funziona a sprazzi ma si rivela un teen drama molto tenero. ennesimo spaccato di cattiveria sociale black versus l’oppressore bianco

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Ecco un’altra storia cosi tipicamente newyorkese da sentire lo sferragliare dei vagoni della subway per Brooklyn mentre la raccontiamo: O’Shea ha il sogno nel cinema nel cassetto ma per tutta la vita mentre tentava di dirigere il suo primo film ha sbarcato il lunario come buttafuori, tassista, tecnico dei computer. Ora questo esordio e’ uno dei titoli piu’ attesi dalla stampa internazionale sulla Croisette, perche’ non capita cosi raramente di spuntare fuori in Un certain regard senza aver passato la gavetta dei corti, del produttore illuminato, delle piccole kermesse ecc. E invece The Transfiguration arriva dritto nella sezione di maggior prestigio autoriale del festival con tutta la tracotanza esibita dei rimandi alla Bibbia vampiresca cinefilo-alternativa, Dracula Unbound e Martin e L’ombra del vampiro (!) che il protagonista tira fuori nei dialoghi e sfoggia sulle etichette delle sue vhs, a casa.
Twilight “fa schifo, per nulla accurato” dice Milo alla fidanzatina Sophie, e infatti O’Shea per il suo teen drama con i morsi sul collo dice di aver guardato piu’ a un mix tra Kelly Reichardt e John McNaughton, seppure negli andirivieni attraverso i quartieri di New York del protagonista, tra i palazzoni di mattoncini rossi del Queens che danno sul mare, i sottoponti di incontri notturni del Central Park e gli appartamentini familiari nel Village, senti piu’ il Ferrara esoterico e assetato di sangue di Driller Killer o The Addiction, quest’ultimo con le citazioni da film a sostituire quelle filosofiche di St.John.

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A prendere il buono dall’exploit di O’Shea bisogna filtrare innanzitutto l’apparato formale dal canone dell’horror indie di ultima generazione, sbalzi improvvisi di soundtrack distorta e crudelta’ inaudite riprese con freddezza arty (terribile il flashback sulle vene aperte della madre suicida e l’omicidio della bambina che neanche in un romanzo di Easton Ellis, molto bella invece l’autopsia finale, fuor di spoiler) e concentrarsi sulla tenerezza sincera e contagiosa che sprigionano i primi impacciatissimi approcci tra Milo e la nuova inquilina bianca del suo palazzo a popolazione interamente black e particolarmente malfamata (gang, spacciatori, pistoloni).
O’Shea non ha la forza espressiva ne’ la lucidita’ di Robert Eggers o, per dire, Ana Lily Amirpour (che potrei scommetterci e’ proprio cio’ che vorrebbe essere) ma anche questo suo film conferma l’immortale anima politica del genere.
The Transfiguration si rivela infatti innanzitutto come la storia della rivolta personale del giovane nero Milo, abbandonato da comunita’ (i coetanei lo perseguitano per il suo vizio di squartare animali…), istituzioni (la voce della psicologa da cui va in analisi sembra provenire da una dimensione lontana e infatti e’ un controcampo negato), e dall’unico parente, il fratello maggiore reduce di guerra che passa le giornate stravaccato sul divano a guardare la tv.
La sua reazione omicida si indirizza verso “oppressori“ bianchi che sembrano sempre avere per l’adolescente un interesse sessuale da bagno pubblico, e veicola una sorta di ristabilimento distorto della giustizia sociale da parte del ragazzo intenzionato a riparare ai torti e alle violenze della metropoli. Fino al sacrificio definitivo di ogni vampiro, anche di chi come Milo si e’ autoconvinto di essere una creatura della notte attraverso un contagio culturale piu’ che fisico (l’intuizione piu’ bella di O’Shea sono quei quadernoni del protagonista fitti di appunti di un’educazione letteraria al sangue): mostrarsi disarmato alla citta’ che non perdona, alla luce del giorno…

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