#Cannes2016 – Toni Erdmann, di Maren Ade

La regista tedesca è consapevole che ormai viviamo in un eterno presente dove la fatica e il sorriso sono la stessa cosa. E in qualche modo questa sua malinconia ci lascia qualcosa. In Concorso.

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E se oggi per riuscire ancora a vivere un briciolo di verità fosse necessario allestire una messa in scena? Magari allungandone i tempi ossessivamente, puntando su un pedinamento sfrontato, ingombrante, divertente proprio perchè assurdamente falso. È attraverso il trucco e una innata predisposizione alla gag che papà Winfried vorrebbe riconquistare il cuore della figlia Ines, rampante donna in carriera in trasferta a Bucarest che sta per concludere un complicato accordo con la sua compagnia. L’uomo si inventa così un personaggio. Con parrucca, dentiera e un inglese stentato diventa Toni Erdmann, dentista, uomo d’affari, socio di Ion Tiriac e supervisore di un progetto petrolifero. Segue Ines negli aperitivi, negli appuntamenti di lavoro e nei party aziendali. E la figlia dopo un’iniziale riluttanza comincia a stare al gioco, ad assecondare la squinternata messa in scena del padre, arrivando a denudarsi (letteralmente), forse a liberarsi di una corazza sociale più cinica e dolorosa del camuffamento di Winfried/Toni.

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Tra appartamenti minimal, lounge bar e asettiche stanze d’ufficio la regista e sceneggiatrice tedesca Maren Ade, 39 anni e reduce da un Orso d’argento a Berlino nel 2009 per Everyone Else, filma un mondo omologato sulla superficie della macroeconomia, provando a trarre una morale intimista sulla caducità dei ricordi e dei momenti che restano. Ne viene fuori una riflessione sul rapporto padre-figlia insolita e straniante, quasi un documentario ripetitivo e sfiancante sull’alienazione dei nostri tempi, intriso qua e là di sketch divertenti che mettono in gioco l’illusione dell’etichetta.

Dietro l’apparente improvvisazione di moltissime sequenze che sembrano andare a oltranza per intercettare qualcosa di sfumato tra la simulazione del reale e il “tempo” delle relazioni umane si cela anche un percorso netto dei personaggi, che nascondono una scrittura emotiva consapevole e a tratti macchinosa. Del resto nei 160’ di durata il film della tedesca Maren Ade sembra spesso girare a vuoto, ingolfarsi, affidarsi in ultima istanza alla bravura dei due interpreti per incercettare un sussulto, una deviazione dagli schemi, magari allestendo una comica improbabile ma dove tutti (personaggi e spettatori) consapevolmente o meno finiscono con lo stare al gioco. Emergono improvvisamente momenti di libertà contagiosa: la canzone di Withney Huston cantata a squarciagola da Ines davanti alla famiglia rumena, l’abbraccio nel prefinale a Toni mascherato da peloso totem bulgaro, la gag del naked party che strizza l’occhio a Blake Edwards. Che film strano quello della cineasta tedesca! Sembra quasi una parabola di John Landis come se l’avesse girata Antonioni. Una commedia senza leggerezza. Forse perchè i tempi che viviamo non possono più permettersi la sintesi di un certo tipo di spettacolo. È inevitabile allora filmare tutto e svelare il meccanismo, moltiplicare i finali e le sottolineature. Lasciare che la gag irrompa sul set con un sua lunghezza, con il peso specifico di una felicità triste. Perchè la Ade è consapevole che ormai viviamo in un eterno presente dove la fatica e il sorriso sono la stessa cosa. E alla fine in qualche modo questa sua malinconia ci lascia qualcosa.

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