#Cannes2017 – 12 Jours, di Raymond Depardon

Depardon gira un documentario rigoroso e lucidissimo nel centrare da subito il problema: non gli interessano le implicazioni della malattia, ma quelle etiche e politiche con le quali si attesta

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Per la legge francese chiunque venga ricoverato in un ospedale psichiatrico contro la sua volontà – quindi dai propri parenti o dalle forze dell’ordine – può rimanerne confinato sino a 12 giorni. Per poi comparire davanti a un giudice che stabilirà la correttezza procedurale e decreterà l’eventuale proroga dell’ospedalizzazione. Materia delicata, quindi, che implica decisioni di enorme rilavanza sul piano dei “democratici” diritti civili o semplicemente su quello dell’etica personale di ognuno. Ed è qui che interviene il cinema: Raymond Depardon gira un documentario (come suo solito) rigoroso e lucidissimo nel centrare da subito il problema: non vediamo come questi pazienti sono arrivati in ospedale e non vediamo mai le loro reazioni successive… vediamo solo il momento della “decisione”, il colloquio che stabilisce chi deve continuare a subire il trattamento e chi può essere rilasciato. Questi giudici (queste persone…) devono infatti verificare se ”la procedura di trattamento obbligatorio sia stata rispettata”: una frase che si ripete a ogni interrogatorio a cui assistiamo. E questo, a pensarci bene, è lo stesso intento di Depardon: piazzare la macchina da presa nella stanza delle decisioni, nel faccia a faccia paziente/giudice per tentare di capire se la legge prima ancora di essere “rispettata” sia anche eticamente accettabile e/o filosoficamente accettata.

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La macchina da presa di Depardon entra in quella stanza, non resta mai a distanza. Una scelta importante: crea primi piani e piani d’insieme, campi e controcampi, crea insomma una relazione tra gli sguardi dei pazienti (molto defilati i loro avvocati) e quelli dei giudici, cerca pertanto in tutti i modi di andare oltre le ripetitive parole per catturare nel volto umano l’istintiva sofferenza o speranza da un lato e il peso della responsabilità o la difficoltà decisionale dall’altro. È un film che si nutre di questi volti e che si concede solo brevi intervalli tra un interrogatorio e un altro, inquadrature di corridoi vuoti e solitudini ospedaliere, in cui la musica di Alexandre Desplat sottolinea (forse un po- troppo) la perturbante sospensione emotiva di questi 12 giorni.

A Depardon, quindi, non interessano le implicazioni individuali o sociali della malattia (come nell’epocale Titicut Follies di Wiseman), ma interessano le implicazioni etiche e politiche con la quale si attesta. Quindi in che modo una democrazia possa e debba “regolare” la (temporanea) privazione della libertà di un suo cittadino. Depardon, ricordandosi evidentemente del pensiero di Foucault in Storia della follia nell’età classica – “… l’opposizione tra poveri buoni e cattivi è essenziale alla struttura e al significato dell’internamento. L’Hôpital général li designa come tali e la follia stessa è ripartita secondo questa dicotomia e può entrare in tal modo, a seconda dell’atteggiamento morale che essa sembra manifestare, tanto nella categoria della beneficenza quanto in quella della repressione …” – testa sul campo ogni risvolto, pubblico e privato, della Legge. Lasciando allo spettatore contemporaneo l’ultima parola, al suo pensiero l’ultimo sacrosanto giudizio, come è giusto che sia.

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