#Cannes2017 – Alive in France, di Abel Ferrara

Ogni volta che Ferrara si muove, ogni cosa intorno a lui muta in una dimensione filmica, invito a raggiungere il livello puramente immaginifico, interiore dello sguardo del cineasta. In Quinzaine

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Alive, già. Mi sento molto più giovane adesso dell’età in cui ho fatto Driller Killer, dice Abel Ferrara riguardo al frammento del suo film d’esordio che ad un certo punto si insinua tra le riprese di uno show di Abel e della sua band in un club parigino dell’inverno scorso, e improvvisamente se non fosse per quel Ferrara giovane e dinoccolato che si aggira sulla sequenza non noteresti alcuna differenza tra le immagini di allora e quelle di oggi, sgangherate, clandestine e smozzicate come tutte quelle che il cineasta ama accumulare in questa fase della sua produzione documentaristica, digitale sporco e sghembe prospettive rubate dal suo iphone. Alive in France è davvero il film più vivo di Cannes2017 (e per tanti motivi non poteva che essere in Quinzaine), perché ogni volta che Ferrara compie anche un minimo movimento, all’istante ogni cosa intorno a lui muta completamente in una dimensione assolutamente filmica, una sorta di invito a raggiungere un livello puramente immaginifico, interiore, appartenente in tutto e per tutto solo alle coordinate dello sguardo del cineasta italoamericano – basti vedere come l’intrusione di Abel per le strade di Tolosa sovverta clamorosamente l’ordine e la normalità del quotidiano, e gli spezzoni di interviste istituzionali a radio e tv che lui si diverte a mandare a gambe all’aria giocando a provocare l’interlocutore…

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Ogni singola inquadratura, sovrimpressione, luce sanguigna o ralenti sfocato tiene insieme Blackout e Go Go Tales con Chelsea on the rocks, Mulberry Street con China Girl. In questo metodo inclusivo c’è tutta la straordinaria umanità di un autore che ama nascondersi dietro l’immagine dell’inavvicinabile, irascibile pazzoide, ma che invece sul suo palco di performer accoglie e dona spazio e luce a tutti, i vecchi amici compositori e cantautori della New York più dannata e infernale, l’attuale compagna Cristina, gli spettatori tra il pubblico di cui capiamo come Ferrara adorerebbe pedinare la strada e la vita che faranno alla fine del concerto, e i musicisti conosciuti al momento, batteristi e rapper invitati senza pensarci due volte a partecipare allo show.
Sulla scena si muovono i sopravvissuti ad una parabola esistenziale ed artistica che

Abel Ferrarariecheggia nei testi “maledetti” delle canzoni composte per i cult della filmografia ferrariana, Il Cattivo Tenente, L’angelo della vendetta, 4:44…, mentre ogni nota della chitarra di Paul Hipp sembra ribadire le parole che Abel usa nel corso di una masterclass di cui vediamo gli istanti salienti, e che come una confessione di disarmante sincerità si fa linea guida del vero racconto che scorre sottotraccia alle immagini da rockumentary guerrilla: rinascere come nuovi esseri umani, passati attraverso il fuoco, basta con la New York del wild side e con le storie di personaggi violenti, ora c’è una bambina bellissima a cui fare da padre e una nuova, incontenibile energia per cui le pareti del club sembrano ridotte a rovine dopo il passaggio del cineasta.

Ferrara arraffa da tutto il materiale raccolto durante il tour francese, come fosse il protagonista di un reality in onda 24 h su 24 ogni minuto diventa tassello utile per il montaggio miracoloso di Fabio Nunziata e Leonardo Daniel Bianchi, abbatte ogni confine tra vita e schermo, e Chris Penn canta ancora quel pezzo struggente di The Funeral, è dal vivo insieme al pianoforte di Joe Delia on stage, evocato come Dee Dee Ramone nel coro finale.
Quelli che non ce l’hanno fatta, per un momento materializzatisi insieme a quelli che invece portano negli occhi e sul corpo le tracce dell’aver vinto la lotta con l’abisso. Ancora per un po’, per trovare di nuovo una maniera diversa per iniziare a girare un film, e poi portarlo a termine, in un modo o nell’altro. Alive.

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