#Cannes2017 – Happy End, di Michael Haneke
Happy End crea dapprima una siderale distanza emotiva tra (e verso) i suoi personaggi, usandola poi come una clava ammonitrice verso lo spettatore. Il cinema è perennemente usato, frustrato, immolato
E dopo l’Amour, naturalmente, come non attendere il doveroso Happy End? Michael Haneke ce lo regala a modo suo, non rinunciando proprio a nulla di un ormai granitico repertorio metaforico e stilistico, anzi rilanciando: molte istanze forti del suo cinema (i rapporti familiari malati, le disfunzioni del potere, la sopraffazione sulle minoranze, il razzismo, la violenza endemica, lo sguardo “altro” dei nuovi dispositivi) vengono tutte condensate e distillate in questo piccolo film/saggio. Una commedia nerissima che sin dai titoli di testa percepiamo come il “post” di ogni altro suo film precedente, forse il post-apocalisse secondo Michael Haneke? Si parte con immagini in bassa definizione frutto di un misterioso smarthphone e da una chat aperta che descrive azioni comuni (ma già inquietanti…), sfociate in gesti apparentemente comuni (ma con conseguenze scioccanti…), quindi proprio come in Caché la riflessione sui nuovi dispositivi di visione e di controllo è da subito palesata come unico fuori-campo ormai concepibile.
Poi si stacca sulla famiglia, naturalmente. Siamo a Calais, in Francia, luogo simbolo di questo nuovo millennio, città di confine con uno dei più grandi centri d’accoglienza per migranti d’Europa; qui vive un vecchio e facoltoso uomo d’affari in pensione (Jean-Louis Trintignant, patriarca della famiglia Laurent) che ha lasciato il controllo della sua società edilizia alla sua ambiziosa figlia (Isabelle Huppert), coadiuvata nelle decisioni dal fratello medico (Mathieu Kassovitz), un uomo apparentemente soddisfatto del suo nuovo matrimonio che ha però una clandestina relazione con una musicista (consuma soprattutto in chat, che continuiamo a leggere sempre con divizia di particolari). Poi i nipoti: un trentenne sbandato e violento che si consuma tra alcool e vita notturna; infine una tredicenne dal viso angelico e dal cuore di tenebra che alterna lucida saggezza a racconti di scioccante disumanità. Ma perché? Perché tutto questo? Beh ovvio: il potere porta alla sopraffazione (evidentissimo il richiamo agli odierni flussi migratori come nuovo schiavismo), i nuovi onnipresenti device creano assuefazione e anestetisia delle percezioni (sottolineata con chirurgica nettezza dai display accesi su un mondo che si sbriciola sotto i nostri occhi), quindi le relazioni umane diventano sempre più funzionalizzate (sino a disporre con serenità della vita e della morte…). Ci siamo.
Se è indubbiamente interessante il discorso di Haneke sui nuovi dispositivi (portato avanti però con più pregnanza teorica in Caché) e sui social newtwork, è anche vero che il regista austriaco sceglie puntualmente la strada più comoda per rimediarli nel cinema: quella del facile moralismo nei confronti delle deleghe tecniche. Non fa (volutamente) mai dialogare le immagini (virali), ma impone sempre delle pre-ordinate significanze da cui proprio non si sfugge: questi “normali mostri” dei nostri tempi si muovono e tessono una tela di relazioni come fossimo in in una soap opera d’autore (il chiarissimo riferimento al passato di Trintignant come personaggio di Amour decuplica la sensazione di déjà vu, di sequel di ogni altro film di Haneke) con i movimenti di macchina sempre funzionali a un deus ex machina che li “studia” nel vetrino del suo prestigioso cinema-microscopio. Una protratta e glaciale oggettificazione dello sguardo (ai personaggi non viene mai concessa una soggettiva, sono sempre guardati, spiati, violati dal cinema) che crea quello stato di perenne malessere così tipico del cinema di Haneke. Ma è veramente tutto qui? La pulsione di morte associata all’altissima borghesia europea, tra concerti di violino e feste di famiglia sfarzose, dove si concludono affari milionari per opere pubbliche fallimentari e dove il razzismo incipiente sgorga da ogni situazione… beh, sembra una metafora talmente tanto banale da risultare quasi stucchevole. Ok. Siamo alla caduta dell’impero romano, i sentimenti sono morti (figurarsi l’amour…), i funny games sono di glaciale violenza (figurarsi se sono i più giovani a reiterali…) e l’happy end è servito (in un ennesimo coitus interruptus con la morte). E sia chiaro: alle soglie del tredicesimo film il punto non può essere certo quello di stabilire se Haneke sia o meno un bravo regista, un grande Autore, un fine intellettuale, o fate voi… a ognuno i suoi giudizi ben argomentati. Il punto è che un film come questo crea dapprima una siderale distanza emotiva tra (e verso) i suoi personaggi, usandola poi come una clava ammonitrice verso il suo spettatore. Il cinema è perennemente usato, frustrato, immolato a un fine… e non ha più bisogno dei nostri sguardi.