#Cannes2017 – Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc, di Bruno Dumont
Strepitosa contaminazione tra il mito e l’electro-pop-rock con le composizioni di Igorr dalla scrittura di Charles Péguy. In un cinema tutto proiettato nel futuro. Alla Quinzaine

Una delle sfide più estreme del cinema di Dumont. Gli anni giovanili di Giovanna d’Arco in un musical electro-pop-rock con le composizioni di Igorr e le coreografie di Philippe Decouflé. Un personaggio storico (Camille Claudel 1915), la terra (la radura vicino a un fiume come la campagna di Flandres) e il villaggio come luogo di iniziazione (L’età inquieta, Hors Satan). Prima (dopo) ancora delle battaglie di Rivette, del rogo di Rossellini, della passione di Dreyer, del processo di Bresson.
1425, Domrémy. Jeannette non è ancora Giovanna d’Arco ma già a 8 anni vuole gli inglesi fuori dal regno di Francia. Ispirato a Mystère de la charité de Jeanne d’Arc di Charles Péguy, porta il cinema di Dumont a dei vertici anni fa inimmaginabili, con quel rischio estremo diventato per Sentieri Selvaggi totalmente autentico da P’tit Quinquin. Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc non ha nessun riferimento, non sembra avere modelli preesistenti. Il film di Bruno Dumont rappresenta qualcosa di unico. La terra, il cielo. Quasi lo sfondo, il quadro, l’elemento che accompagna sempre il cinema del regista francese. Poi Jeannette, in una doppia mutazione. Jeanne bambina e adolescente. Con un film soprannaturale. Musical di zombie. Con lo sfondo delle capre. Il loro verso come contraltare musicale. O anche residuo del paesaggio di Dumont.
Il cinema in Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc che è soprattutto il luogo della mistificazione. La protagonista che avanza, guarda in macchina. Apparizioni. Le due suore per un altro numero musical, una Giovanna d’Arco 2.0. Tutta proiettata sul futuro (del cinema). Che inizia con il suo corpo una sfida con la macchina da presa. Che attiva e/o subisce il movimento dello sguardo di Dumont. Poco importa. Che sembra quasi spogliarsi davanti a un luogo già spoglio. Dove l’essenzialità del set dell’opera del regista francese viene contaminata da una frenesia fisica, ossessiva, indemoniata. Non c’è bisogno delle accensioni cromatiche del genere. I colori trattenuti dello sfondo si animano dopo la presenza del suo passaggio fisico. C’è il grido di libertà. Anche nei numeri a cappella. Dove la Storia è nell’attesa del fuori-campo. Come la dominazione inglese. L’inquadratura è solo contaminata dai segni. Che sono quelli religiosi. Sull’onda inarrestabile di un testo fluttuante. Un monologo/dialogo continuo. Prima con lo schermo. Che si vorrebbe spaccare, frantumare. Si, certo, c’è il tempo. Con un passaggio sensibile. Ma resta soprattutto quello stato di un’immagine vergine. Nel secolo dove il cinema non esisteva. Contaminato nel 2017 dove il cinema sta diventando qualcos’altro. E Dumont stravince la sua sfida. Con la sintesi, il rigore formale sempre assoluti. Ma con una spinta di gioia dove danzano tutti gli elementi della materia. Forse il suo film di fantascienza più dichiarato. Ancora più di Twentynine Palms. Ma stiamo in un altro secolo. Ma soprattutto in un altro cinema. Dove sembrano passate ere glaciali.