#Cannes2017 – Les fantômes d’Ismaël, di Arnaud Desplechin

Il film d’apertura di Cannes 70: l’assurdo potere dello sguardo di svuotare il reale, di condurlo lungo una falsa traiettoria. Il cinema di Desplechin è difficile da accettare, ma ha fame di mondo

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In uno dei suoi momenti di massimo delirio, Ismaël Vuillard (nome che riemerge dai tempi nebbiosi dei I re e la regina) cerca di spiegare la prospettiva al suo produttore Zwy. Ha piazzato due quadri, due riproduzioni, l’una di fronte all’altra: l’Annunciazione del Beato Angelico, con quelle fantastiche ali multicolore dell’arcangelo Gabriele, e il Ritratto dei coniugi Arnolfini di Van Eyck. Tra un quadro e l’altro, Ismaël ha steso una selva di fili: per tracciarne i rapporti, le rispettive linee di fuga, le differenze, gli intrecci e gli scarti. Il tutto per dire che non esiste un’unica prospettiva, certa, netta, geometrica, chiusa e sigillata da una legge definita una volta e per sempre. Accanto alla regola implacabile dei pittori del Rinascimento italiano, c’è la spazio inclusivo dei fiamminghi, quello che disegna più sfere che coni, quello che si deforma sotto la pressione di più punti di vista e che si apre ai lati, si rovescia in avanti, si allunga nei riflessi. Ovviamente, i ragionamenti di Ismaël sono tutt’altro che chiari e lineari. Il suo modo di parlare e muoversi ha lo stesso fremito incontrollato dei film di Desplechin, che sprigiona ogni volta tutta l’esuberanza destabilizzante di Amalric, spingendolo fuori asse, faccia a terra. Eppure, nonostante sia appena accennato, il confronto pittorico ha la forza rivelatrice di una dichiarazione d’intenti. Perché nell’attimo stesso in cui nega l’unicità della prospettiva, il “regista” Ismaël Vuillard rivendica l’eredità della linea olandese. Chiamando con sé lo stesso Desplechin, che, proprio come fosse colto dal minuscolo riflesso dello specchio alle spalle degli Arnolfini, torna sempre in campoLes fantômes d’Ismaël2, ben dentro il quadro. Il suo cinema in prima persona non può sfuggire alla presenza ingombrante delle sue ossessioni e perciò mostra sempre tutti i segni, tutta la parzialità di un punto di vista interno: lo spazio non chiude, vacilla, segue le derive ben poco “scientifiche” dell’emozione, dei ricordi, delle impressioni.

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Che sia la natia Roubaix o il Tagikistan riprodotto in Marocco, lo spazio per Desplechin è sempre indifferente alla questione del realismo, se non addirittura alla pura e semplice affermazione della propria concretezza, di una seppure minima consistenza materiale. Gli ambienti sembrano più essere una funzione del tempo, valere come depositi del vissuto o tasselli di un percorso sentimentale, che sfiora e attraversa le cose, ma ne prescinde. Per questo Praga può essere percorsa con l’immaginazione lungo i tracciati di una mappa, per questo le diapositive, i ritratti, tutte queste immagini in perfetta assenza di materia, quest’affermazione trionfante del bidimensionale, questo parlare per sineddochi e metonimie…

I fantasmi, perfetto: il cinema, certo. Ma il dedalo disegnato da Desplechin svela una volta per tutte la sua struttura “debole”, più immaginaria che reale, più sognata che scritta. Non è una labirinto con mura, false uscite, svolte, percorsi obbligati, bipartizioni folli: è un gioco di doppi, riflessi, nomi che tornano e personaggi che scompaiono o non coincidono, suggestionLes fantômes d’Ismaël1i che s’inseguono, ansie, desideri, alla fine dei quali l’autore intravede se stesso, esattamente come noi spettatori riconosciamo la nostra immagine incerta. Il fantasma, allora, ha senso solo perché si manifesta e quindi si produce in una visione. Non è dall’altra parte dello sguardo, è nell’occhio stesso di chi guarda… il fantasma è Desplechin, sono io… ci vorrebbe il punto interrogativo. Di certo Les fantômes d’Ismaël racconta proprio questo assurdo potere dello sguardo di svuotare il reale, di confonderlo e donargli un altro senso, di condurlo lungo una falsa traiettoria, di farlo errare. Carlotta è lì, viva, in carne e ossa, è tornata sui suoi passi, dopo ventuno anni di fughe e divagazioni. Solo l’ostinazione di Ismaël o del vecchio Bloom possono fare di lei una visione, un fantasma: il ritorno di Carlotta Valdes, la donna che visse due, tre volte… del resto, sono due registi e, come Hitchcock, si fidano più dell’immagine che del reale.  Ma che sia questo il dramma?

Il cinema di Desplechin, nonostante la sua apparenza così vitale, in fondo ci sbatte in faccia la nostra fatica, la rassegnazione, la rinuncia. L’esserci abituati a vivere l’assenza come una certezza, a considerare il presente e il futuro solo come due altre forme del passato… Per questo, a volte, è così difficile da capire e accettare. Eppure, quell’ansia che lo attraversa è fame di mondo. Dopo il travaglio del negativo, c’è ancora vita.  Vita che sei di ritorno, tu non devi abbandonarmi mai.

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