#Cannes2017 – Nos années folles, di André Téchiné

Il regista francese riflette ancora una volta sulla sessualità, sul mascheramento e sulla rappresentazione, raccontando la controversa storia del travestito Paul Grappe. Fuori concorso

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Francia,1914. Una coppia di giovani sposi è costretta a separarsi a causa della guerra. Lei, Louise, lavora in una maglieria, lui, Paul, viene ovviamente arruolato e cerca in tutti i modi di sopravvivere agli orrori delle trincee e alla più grande tragedia umana del secolo breve. Dopo essersi mutilato una falange, decide di disertare il fronte e tornare a Parigi. Per evitare la corte marziale vive segregato in cantina, poi Louise ha un’idea: dare al marito una nuova identità… femminile. Paul diventa così Suzanne Langdard. I due continuano ad amarsi e a vivere con complicità questa nuova immagine di Paul/Suzanne, che si getta nella vita notturna della Parigi degli anni 20 senza freni inibitori. Inizia una vita sessuale sfrenata, si prostituisce e arriva ad avere una nuova percezione di se stesso. Qual è la sua vera natura allora, quella di Paul o quella di Suzanne? “Mi sento più forte quando sono Suzanne” ammette l’uomo. E intanto la sua vicenda comincia a essere raccontata nei teatri parigini. Poi arrivano l’amnistia e un figlio. Paul può/deve abbandonare il suo alter ego femminile. Ma a quel punto per lui e Louise è solo l’inizio della fine.

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Téchiné non cede mai a un edonismo estetizzante. Tutt’altro. Racconta, con l’essenzialità che contraddistingue da sempre il suo cinema, una delle prime e più tragiche storie di travestitismo del XX secolo. Il testo di riferimento è Le garçonne et l’assassin, il libro di Fabrice Virgili e Daniel Voldman, uscito nel 2011, e dedicato alla vera storia di Paul Grappe. Non è un film che riflette sulla bisessualità, bensì sul potere affabulatorio e “fisico” della maschera e della rappresentazione, in cui il maquillage diventa inizialmente sogno e poi incubo di un melodramma dalle tinte progressivamente sempre più fosche. Tutto viene messo in scena come un rondó crepuscolare che sta attaccato ai personaggi, quasi asfissiandoli all’interno dello spazio set. Le trincee, le cantine, la camera da letto, il palcoscenico appaiono soprattutto come quinte oscure in cui consumare l’impossibilità di accettare un (solo) corpo e la mutazione è così vista come unica via di fuga. Il film è sottilmente imperniato nella crasi brutale tra la inconsapevole (?) modernità del personaggio e l’immobilità della Storia/società. Per questo il ruolo più interessante finisce con l’essere proprio quello di Louise. Moglie devota, complice, creatrice e boia di Suzanne, è in perenne trasformazione demiurgica anche lei, come fosse la vera regista della storia. Dispensatrice di identità, generi, nomi – si veda anche la rivelazione a sorpresa del finale – è la proiezione razionale della confusione di Paul.

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