#Cannes2017 – The Florida Project, di Sean Baker

The Florida Project corteggia e poi evade subito da qualsiasi stilema codificato di “indie americano”. Un oggetto inclassificabile che sposa “politicamente” lo sguardo fanciullo. Straordinario

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Celebrate good times, come on! Le irresisistibili note dei Kool & the Gang (con tutto l’immaginario che si portano dietro) ci immergono istantaneamente in questo piccolo miracolo di film. Una celebrazione dell’infanzia e dello sguardo destrutturato dei bambini (… quindi del cinema) come unica possibile via di fuga dal dolore degli adulti. Un film “politico”, certo, nella migliore accezione possibile. Siamo alla periferia di Orlando, in un bizzarro Motel/mondo a prezzi contenuti (il Futureland Hill), dove trovano rifugio diverse ragazze madri e famiglie in difficoltà: un universo che sembra uscito da una scultura pop di Claes Oldenburg e che diventa il set del nuovo di film dell’indipendentissimo sguardo di Sean Baker. Qui incontriamo Moonee (una bambina di sei anni) e i suoi piccoli amici… pronti? Via!… i bambini calamitano il cinema e se lo portano dietro in un incredibile esplosione di energia vitale e sorrisi contagliosi, in quegli stessi spazi dove lo sguardo adulto vede solo macerie della storia e deserti emotivi. Tutta la prima del film è frammentata in singole stripes slegate, sregolate e immerse in questi sublimi anni in tasca: tra scherzi agli adulti e pericoli sventati, avventure ostinatamente cercate e gelati mangiati sfidando il vecchio Bobby. Il Manager. Figura paterna e “sceriffo” della piccola comunità, Willem Dafoe suona lo stesso spartito degli attori non professionisti che lo circondano, riuscendo ancora una volta a disegnare infinite traiettorie emotive in un singolo primo piano.

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the-florida-projectSean Baker gira quindi il suo primo film il 35mm (interessante scelta per uno dei paladini del cinema-iPhone di questi anni) riuscendo a catturare con truffauttiana naturalezza quella fluviale energia fanciulla che trasforma ogni situazione statica in movimento/avventura, fondendola poi con il dramma di un’intera generazione di trentenni senza lavoro o prospettive sulla scia lunga della crisi del 2008. Non ci sono confini tra il sorriso e il dramma sociale – Halley, l’incasinata madre di Moonee, tenta anche la via della prostituzione per cercare di pagare l’affitto -, proprio come in un déjà vu cinematografico che dal neorealismo magico desichiano ci (tras)porta al cinema sociale dei fratelli Dardenne, approdando infine ad atmosfere oniriche alla Michel Gondry. The Florida Project, del resto, era il nome della Disney World in costruzione a fine anni ’60, quindi il nome del sogno, dell’evasione dal quotidiano, di ogni possibile paese delle meraviglie da trovare nel nulla…

Non ci si arrende alle macerie, quindi. Perché il cinema è innamorato di Moonee, vede e crede come lei, rispetta il suo tempo e il suo punto di vista sulle cose, muta “naturalmente” di segno ogni situazione e cerca disperatamente il Magic Castle anche quando le lacrime rigano gli occhi, anche quando sua madre sbanda definitivamente, anche quando tutto sembra diventato un incubo. The Florida Project corteggia e poi evade subito da qualsiasi stilema codificato di “indie americano”, come un’irrelogare (s)cultura pop che spalanca le porte ai nostri personali anni in tasca… anche qui, fuori dalla sala e nonostante tutto: celebrate good times, come on!

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