#Cannes2017 – The Killing of a Sacred Deer, di Yorgos Lanthimos

Sorta di horror da possessione demoniaca senza elementi soprannaturali, ma lasciando in scena solo gli effetti sui corpi e sulle relazioni tra gli uomini di decisioni imperscrutabili. In Concorso

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Nel caso di un’operazione a cuore aperto finita male, a chi è possibile dare la colpa, al chirurgo o all’anestesista? “E’ la classica barzelletta che dice: il paziente ha superato benissimo l’operazione, ma per il dottore non c’è più niente da fare…”. D’accordo, dottor Lanthimos: per quanto tempo potrà sopravvivere il paziente-Cinema sotto i tuoi ferri, e soprattutto quale anestesia inoculerai questa volta alle immagini, ai personaggi, alla macchina da presa, in ultimo a noi spettatori?
Non si può dire che il cineasta greco tenga nascosto alle sue vittime, da una parte e l’altra dello schermo, gli intenti e gli attrezzi impietosi della sua sala operatoria. La questione dell’ennesimo, insostenibile case study è ogni volta chiara fin dal titolo, e dalle prime battute pronunciate in catalessi dai protagonisti: gli va riconosciuto di non aver voluto giocare facile sul successo di pubblico e immaginario popolare, in qualche maniera inaspettato, del precedente Lobster, e anzi di non aver alleggerito neanche per un attimo il carico di astio e livore veicolato dalle sue storie.

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Tutt’altro: pur confermando il perno dei suoi apologhi recenti in Colin Farrell, sempre più affaticato dal peso di questo sguardo (a)morale, Lanthimos immerge in un décor vicino a quello della clinica di Lobster (esplorazioni kubrickiane di corridoi labirintici infiniti, neutralità dell’immagine raffreddata con supporto di musica contemporanea glaciale) i resti di un racconto quasi mitologico, di una divinità punitrice bambina, crudele e capricciosa, della quale Nicole Kidman finisce anche per baciare i piedi insanguinati, in ginocchio davanti al trono in cantina del perfido Martin, ragazzetto diabolico con il potere apparente di lanciare una terribile maledizione sulla famiglia borghesissima del chirurgo Steven, reo d’aver sbagliato mortalmente un intervento chirurgico affrontato dopo aver bevuto.
Quali saranno i cervi sacri da sacrificare all’altare della redenzione nel sangue per liberarsi di questa terribile legatura?
Lanthimos gira una sorta di horror da possessione demoniaca eliminando qualunque

kidman-farrell-lanthimoselemento soprannaturale, ma lasciando in scena solo gli effetti sui corpi e sulle relazioni tra gli uomini di decisioni irrevocabili, prese in una dimensione altra, inavvicinabile e imperscrutabile.

Ancora una volta il risultato del procedimento è quello di allontanare qualsiasi segno anche debole di libero arbitrio dello sguardo e dei sentimenti dal teorema, che va applicato senza che nulla possa smuovere la spietata e disumana dimostrazione della tesi, che procede per progressione esponenziale di crudeltà in situazioni simmetriche (Nicole Kidman, algida e extraterrestre come solo l’attrice sa apparire, a confronto con la vedova ben più “popolana” di Alicia Silverstone: “faremo un contest di limonate fatte in casa”), fino ad un parossismo che sogghigna del proprio stesso cinismo, compiaciuto di poter letteralmente colpire chiunque a caso, alla cieca.
L’autopsia è conclusa anche stavolta, dottor Lanthimos, gli organi del corpo filmico sono stati tutti esportati e catalogati correttamente: che cosa resta? L’incipit “operatorio” è lampante: the act of seeing with one’s own eye. Ma quali occhi possono sopravvivere davvero a uno spettacolo del genere?

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