#Cannes2017 – The Square, di Ruben Östlund

Una rappresentazione dell’assurdo dove emerge uno sguardo moraleggiante. E il film è come un’installazione in cui ci affacciamo come quei visitatori del museo poco interessati che poi scappano via

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Come un’installazione. Dove anche il caso, l’imprevisto, diventano elementi da pianificare dentro le prospettive precise di una messinscena che predilige la distanza, il campo lungo, la durata. Con The Square il cinema dello svedese Ruben Östlund continua a soffermarsi sul rapporto causa/effetto. In Forza maggiore era l’arrivo di una valanga che ha messo in crisi le dinamiche di una coppia. Qui invece sono il furto degli oggetti personali e un video virale su Youtube a scatenare tutte le diverse reazioni tra il protagonista e gli altri personaggi.

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Christian è il direttore di un museo di arte contemporanea. Padre divorziato, con due figlie, si dedica anche a iniziative umanitarie. Ora sta preparando la sua prossima esposizione “The Square” che invita i visitatori a riscoprire concetti come l’altruismo e ricordare i loro doveri allo sguardo degli altri. Al tempo stesso, per l’evento, sta organizzando una campagna pubblicitaria notevole che però si spinge oltre i limiti.

Il grottesco investe il mondo dell’arte contemporanea. Con le sue installazioni e le sue provocazioni. Gorilla che entrano in casa, l’uomo con la sindrome di Tourette che interrompe continuamente l’incontro con l’artista, l’esibizione dell’uomo primitivo alla cena di gala. E fuori, il mondo dei senzatetto, i sacchetti pieni della spazzatura. Sguardo moraleggiante nascosto dietro la ricerca ostentata dell’assurdo, il cinema di Östlund diventa paradossalmente lo specchio di quello che vuole mostrare per denigrarlo. C’è quella crudeltà sarcastica che passa da Roy Andersson e parte del più riuscito anche se non memorabile Toni Erdmann di Maren Ade. Nel prolungare le scene per portare all’effetto distruttivo, sottolineandolo con una colonna sonora che si ripete nelle variazioni dell’Ave Maria, Christian appare la pedina ideale di un cinema gelido come la morte. Che ha il suo controcampo invece nell’ultimo Kaurismäki di L’altro volto della speranza. Dove nei piani fissi si percepisce tutta una vita che corre all’interno. Ci prova anche Östlund, ma solo come morbosa curiosità (la dipendente del museo che sta ascoltando la conversazione tra Christian e Anne) o come passaggi della folla dentro l’inquadratura, che hanno più o meno la consistenza delle nuvole digitali che passano a tutta velocità. E i personaggi restano lì, come l’installazione d’arte contemporanea dei coni di polvere dentro una grande stanza. Con figure che in profondità di campo si affacciano appena (come se ci fosse l’Hulot di Tati catapultato lì per caso) e poi se ne vanno via. Ecco, davanti a The Square noi siamo proprio come quei visitatori del museo. Ci affacciamo ma non entriamo. Non ci interessa.

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