#Cannes2018 – Ahlat Agaci. Incontro con Nuri Bilge Ceylan e il cast

Cannes 71 chiude con l’ultimo atteso film del cineasta turco N. B. Ceylan: “Ahlat Agaci” racconta della storia tormentata tra un padre e un figlio, sprofondati nella terra d’Anatolia. In concorso.

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Il Festival di Cannes – in chiusura oggi, sabato 19 maggio – ospita l’ultimo e tanto atteso film del concorso ufficiale, Ahlat Agaci, diretto dal “cineasta d’oro” Nuri Bilge Ceylan, il quale alla sua ultima apparizione sulla Croisette nel 2014, si era aggiudicato la tanto agognata Palma d’oro (nonché premio FIPRESCI) con Il regno d’inverno – Winter Sleep. Questa vittoria per l’allora ultima opera partorita dal cineasta turco, fu il culmine raggiunto dopo numerose altre occasioni trionfanti nel corso degli anni: Ceylan giunse per la prima volta a Cannes con il suo cortometraggio Koza (1995), riportando il cinema della sua terra in prima linea, diventando nei fatti il primo corto turco a essere inserito in concorso al Festival; il 2003 sarà l’anno di Uzak, vincitore dell’altrettanto prestigioso Grand Prix (e anche del Prix d’interprétation masculine per entrambi gli attori protagonisti), riconoscimento successivamente ottenuto da Ceylan anche nel 2011 per C’era una volta in Anatolia (ex aequo con i fratelli Dardenne); nel frattempo, il suo Il piacere e l’amore gli aveva già fruttato il premio FIPRESCI della 59esima edizione cannese e, infine, anche Le tre scimmie ricevette il meritato tributo con la vittoria del Prix de la mise en scène nel 2008. E se così non fosse già abbastanza, il nostro riuscì a ottenere persino la Carrosse d’or in occasione della 65esima edizione.

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Ceylan torna, dunque, “a casa” con la sua ultima opera – nelle sale a partire dal 15 agosto – , Ahlat Agaci (The Wilde Pear Tree), con la quale racconta stavolta la storia di un conflitto familiare tra padre e figlio, come sempre ambientato nella terra d’Anatolia: Sinan (Aydin Doğu Demirkol) ha sempre desiderato diventare uno scrittore, fa di tutto per trovare il denaro per le sue pubblicazioni ma, al momento del ritorno nel proprio paese natio, dovrà fare i conti con i debiti accumulati dal padre (Murat Cemcir) e con le contraddizioni sorte in seno alla sua stessa vita. Ceylan scava, dunque, nell’interiorità del suo personaggio il quale sente in sé un forte senso di colpa e un elemento di disturbo a cui è incapace di far fronte; attraverso una serie di esperienze dolorose, il regista mostrerà l’inevitabile slittamento del destino del giovane Sinan verso uno molto simile a quello del padre.

Il cineasta ha presentato stamattina alla stampa la sua opera – dopo la proiezione di ieri sera, per la durata totale di oltre tre ore – , accompagnato come sempre dalla splendida moglie Ebru Ceylan, oramai membro fisso del suo team di sceneggiatori, e dal resto del cast artistico e tecnico del film. In apertura, si chiede a Ceylan la ragione di questi lunghi anni di lavorazione – un po’ insoliti nel suo svelto modus operandi cinematografico – che hanno infine condotto al film. La risposta del cineasta è semplice e immediata: «Sì, in effetti ci abbiamo messo di più a realizzare questo film, ma in realtà all’inizio eravamo in procinto di lavorare a un altro progetto, che poi abbiamo abbandonato strada facendo per dirigerci verso questo. È questa la vera ragione per la quale la lavorazione è durata di più rispetto al passato».

Subito dopo, l’attenzione della stampa si rivolge agli aspetti più strettamente formali dell’opera, in particolare la scelta delle musiche: «In generale, preferisco utilizzare la stessa musica più volte nel film, invece di utilizzare musiche di differenti partiture. Per questo film c’è una sola partitura (da un’opera di Johann Sebastian Bach, la sua versione orchestrale), della quale è stata utilizzata la sola parte introduttiva».
Dalla scelta musicale si passa presto a discutere della scelta dei luoghi di ripresa, nonché della loro importanza cruciale rispetto alla stessa fase di scrittura del film: «Insieme a Ebru ho visto molti luoghi, volevo che si trattasse di un posto in una geografia diversa. Nei fatti si tratta di una città industriale, dove si trovano delle fabbriche molto importanti… In più, non è il posto dove sono vissuto, tuttavia avevo in quella regione una buona parte di parenti, dunque le riprese sono diventate per questo più facili… Certamente c’è un legame diretto tra sceneggiatura e luogo delle riprese: il luogo influenza la sceneggiatura, e lo fa soprattutto nel corso delle riprese. Il processo del pensiero non si può arrestare e, quando sei in procinto di pensare a ciò che stai facendo, all’improvviso capisci che puoi migliorare il film, non solo in fase di ripresa ma soprattutto in quella di montaggio. Pensi a come fare per rendere migliore il tuo film e, fin quando non avrai realizzato quell’idea che hai in testa, non sarai mai tranquillo!».

Ceylan racconta poco dopo dell’incontro con gli attori principali e delle ragioni della loro scelta per queste parti, in particolare quella – difficile – del padre Idris, interpretato dall’attore Murat Cemcir. Così replica alla stampa il regista: «Il padre era un personaggio che non avevo mai trattato fino ad oggi, non sapevo bene come apportargli le caratteristiche principali; ciò che mi ha convinto è stato essenzialmente che era un ruolo molto difficile da mettere in scena, da mettere in vita. Riguardo a Murat, l’avevo visto in alcune scene di serie televisive… Era qualcosa che si incastrava perfettamente al padre che avrei voluto nel mio film. Dopo averlo visto mi ha convinto subito, non ho cambiato idea, e lo stesso è stato per l’altro ruolo principale». L’altro protagonista del film, lo scrittore Sinan, è interpretato invece da Aydin Doğu Demirkol, il quale nel corso della conferenza racconterà con un certo spirito del suo primo incontro con il regista e del suo approccio al testo, scatenando l’ilarità della sala con i suoi aneddoti e la sua ironia.

Senza scherzi, invece, si parlerà con Ceylan di un cinema che sappia incorporare (ma anche tenere a bada) un certo elemento filosofico, il quale spesse volte rischia di appesantire il corpo dell’opera: «Effettivamente la filosofia in un film è qualcosa di difficile! Le persone possono facilmente “disconnettersi” ed essere allergiche al vigore… Il più grande ostacolo da oltrepassare per questo film era, appunto, che avrebbe potuto diventare troppo letterario, troppa filosofia; bisognava fare in modo che tutto questo diventasse accettabile, che ci fossero dei tagli attraverso la mimica, i personaggi…».
Ceylan si dilunga, a questo punto, sul racconto – appassionato – di come siano nati il soggetto (originariamente il ruolo del padre controcorrente venne immaginato come il vero protagonista) e la sceneggiatura del film, la quale fu partorita prima di tutto dall’ingegno incredibile di Akin Aksu. Ceylan amò da subito il testo scritto da Aksu: «Il testo era in stato integrale; non c’era nessuno che faceva l’eroe… C’erano dei dettagli che potevano essere trattati in modo cinematografico. Il testo era magnifico! In seguito, ci siamo messi in tre a lavorare alla sceneggiatura: il testo di Akin era tutta una vita, ma io avevo bisogno di uno spazio e di un tempo molto più ridotti… Si è poi capito che il vero personaggio principale non era il padre, ma il figlio con la sua personalità, la sua presenza, i conflitti nei quali entra: lo abbiamo trovato più fattibile. Da molto tempo desideravo fare un film sulla giovinezza e, attraverso questo personaggio, ho potuto avere una bella occasione per farlo: ho provato a mostrare nel modo migliore un giovane che tenta di esistere e di divenire indipendente – con i suoi valori e confessioni – in Turchia».

Sul finire di questo lungo e coinvolgente incontro, Ceylan si concentra anche sull’aspetto più propriamente politico del suo film, nel quale trova esplicito posto la cultura patriarcale della sua Turchia: «I personaggi principali vivono in un mondo rurale, c’è tutto un mondo provinciale che li circonda. Volevo essere realista in rapporto al trattamento di questo soggetto. L’immaginazione – malgrado ciò che si può credere – non sfocia sulla realtà, ma su qualcosa di surreale. Nel mondo reale vi basate su dei cliché, su delle cose accettate da tutti ma, quando entrate nei dettagli tangibili di queste cose, sfociate nel surreale. Questo è ciò che ho trattato». Su questa scia, Ceylan ribadisce il suo vero obiettivo d’artista, il quale sta molto al di là del trattamento della realtà socio-politica di un dato Paese: «Ciò che mi interessa nei miei film è uno studio della natura umana… Le arti, gli eventi che drammatizzo o meno, tutte queste cose sfociano in qualcosa che suscita un sentimento sorprendente: la vita mi sorprende sempre!».

L’incontro si chiude lasciando la parola ad altre due illustri presenze in sala, prima di tutto la cosceneggiatrice del film, Ebru Ceylan, la quale dichiara in relazione al suo lavoro al testo: «C’è una differenza tra le parti scritte da me e quelle scritte dagli altri. C’è una differenza fondamentale tra la lingua usata dall’uomo e quella usata dalla donna (al livello della scrittura)». E, infine, la parola conclusiva passa al grande direttore della fotografia, Gökhan Tiryaki: «Con Nuri Bilge si fa realmente un film, lo si crea da sana pianta e, prima di girare, ogni volta e a ciascuna scena, per me è come tornare a scuola, ogni volta tornare a ripassare un periodo di studio. C’è ogni volta qualcosa di nuovo… Non lavoriamo con metodi classici, non c’è storyboard, ogni volta si prova a mettere in pratica delle nuove tecniche».
Il Festival di Cannes si concluderà stasera con la cerimonia di premiazione finale. Non resta che chiedere al (pluripremiato) regista turco se non abbia un qualche presentimento su un’altra possibile Palma d’oro anche per questa edizione. La sua risposta ci sembra legittima: «Non potrei essere credibile qualsiasi cosa rispondessi a questa domanda. Quando realizzo un film, la sola cosa che non conta per me è tutto ciò che ne resta al di fuori…».

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