#Cannes2018 – Leave No Trace, di Debra Granik

Una fiaba nera, un cinema sensoriale e che ha una solida consistenza. Con la ricchezza degli elementi di un documentario e carico di paura e curiosità. Notevole Thomasin McKenzie. Alla Quinzaine

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Dalle montagne del Missouri di Un gelido inverno alla foresta nei pressi di Portland di Leave No Trace. Ancora al centro personaggi che prediligono uno stile di vita che rifiuta il progresso e un cinema che mette in primo piano gli elementi: acqua, aria, terra, fuoco. Tra i due film sono passati otto anni ma sembrano quasi speculari. Un gelido inverno, con The Burning Plain, aveva contribuito in maniera determinante a lanciare Jennifer Lawrence che infatti aveva ottenuto una delle quattro nomination all’Oscar assieme a quella per il miglior film, miglior attore non protagonista (John Hawkes) e sceneggiatura non originale. E in Leave No Trace colpisce la prova di Thomasin McKenzie, neozelandese, 18 anni non ancora compiuti, conosciuta principalmente per la serie tv Shortland Street. Ancora una sfida tra il corpo e la natura. Come per la Lawrence. L’attrice interpreta Tom, una ragazzina che vive con il padre (Ben Foster) nella foresta. I contatti con il mondo esterno sono molto limitati. Sono però molto affiatati e formano una famiglia atipica. Ma poi le forze dell’ordine li costringono ad andarsene perché occupano il territorio abusivamente. E gli offrono una nuova casa, un lavoro e la possibilità di frequentarea scuola per la ragazza. Lui cerca di adattarsi ma con molte difficoltà. Lei invece è incuriosita da qusto nuovo stile di vita. Questo cambiamento influirà sul loro rapporto.

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Una fiaba nera, nei rifugi più che in fuga da ‘tranquilli weekend di paura. Dove il punto di confine tra civiltà e natura selvaggia si vede dall’alto della funivia. Leave No Trace è l’ottimo risultato di una lunga ricerca, di un cinema che coglie l’immediatezza della scoperta (il coetaneo con i conigli) e che mostra l’interazione, la dipendenza dei personaggi con i luoghi. O, al contrario, la loro estraneità  quando soprattutto si confrontano con il progresso. Il padre di Tom rifiuta il telefono, nasconde la tv quando gli è stata affidata la nuova abitazione. Sembra quasi essere un documentario per come segue i personaggi, per la ricchezza di elementi e dettagli nel raccontare una storia. La Granik non cerca soluzioni alla Malick con soluzioni tipo la luce che filtra tra gli alberi. Tom e il padre non appaiono figure eterre ma con una solida consistenza. Hanno una storia addosso che non ha importanza di essere rivelata. Come per la Lawrence in Un gelido inverno, si entrava subito in sintonia con lei anche se della sua condizione non si sapeva nulla.

Un cinema anche sensoriale, che fa sentire addosso il freddo e la paura. In un viaggio senza meta, irregolare, come nella tappa sul bus poi subito interrotta. Ma dove due punti di vista complementari si modificano gradualmente ma in modo evidente. In un film capace di aspettare i suoi tempi, diretto, carico di calore non esibito. Come nella comunità, quasi nelle zone di Into the Wild. Che col film di Sean Penn ha una direzione, contemporaneamente, uguale e (forse) contraria.

 

 

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