#Cannes2018 – Plaire, aimer et courir vite, di Christophe Honoré
Non certo il miglior film di Honoirè, forse troppo letterario, ma comunque un improvviso “bagliore nouvelle vague” che illumina il crocevia degli anni ’90 come momento centrale di crescita
Plaire, aimer et courir vite, in effetti, potrebbe essere la frase summa dell’intera carriera di Christophe Honoré. Dal piacere – perennemente mediato dal teatro, dai romanzi, dall’arte in generale come grande riflesso di vita – a tutte les chansons d’amour filmate – da Rohmer a Demy, da Rivette a Truffaut, sono tante le ascendenze che premono sulle sue inquadrature – sino al correre veloce di una generazione – quella divenuta adulta negli anni 90, il decennio di confine, prima che questo nuovo millennio ridiscuta ogni traiettoria. E non è un caso che il suo film forse più personale sia ambientato proprio negli anni ’90 (nel 1993 precisamente) quando il giovane bretone Arthur incontra in un cinema di Rennes lo scrittore parigino Jaques aprendosi al piacere e all’amore. In quel cinema si sta proiettando Lezioni di piano di Jane Campion, un film che ha bisogno di un tempo tutto suo, che Arthur non riesce dapprima a seguire (perché corre veloce) ma che Jacques gli consiglia di attendere con pazienza. Questo è un incontro casuale, certo, ma già battezzato dalla magia del grande schermo: “chissà se sarai così bello anche alla luce del sole“. E dopo l’incontro arriva la vita: Jaques vive liberamente la sua omosessualità ma è sieropositivo, le sue prospettive sono per forza di cose limitate e la sua disillusione si trasferisce nelle continue referenze lettarie (da Ribaud a Whitman) che filtrano il suo rapporto a distanza con Arthur.
Insomma Honoré ci mette tante (troppe?) personali passioni in questo film. L’autobiografismo del regista bretone come il suo giovane personaggio, la perenne mediazione dell’arte che riscrive la vita come fosse una lettera d’amore, il confronto generazionale segnato dal cinema (nella casa di Jacques c’è il poster di Querelle di Fassbinder creato da Andy Warhol; nella camera di Arthur c’è la gigantografia di Boy Meet Girl di Carax), la letteratura come grande racconto delle vite comuni e infine la poesia come punto esclamativo sulle singole passioni. Il film, in effetti, è sin troppo letterario, (in)seguendo ostinatamente quella frammentarietà dell’esperienza emotiva in un sentiero che il cinema francese porta avanti da sempre. E allora si alternano momenti di forsennata accelerazione passionale – l’incontro al cinema e poi la stessa rima visiva finale rimangono nella memoria – e momenti di improvvisa stasi – le referenze culturali sbandierate e reiterate intasano un po’ troppo il tempo del nostro film –, ma alla fine è tutto giustificato dalla sincerità di fondo che nel cinema di Honoré non manca mai.
Parigi, allora, diventa l’unico orizzonte possibile. “Non posso non finire a Parigi” dice Arthur. In questo film di lunghe passeggiate notturne e risvegli pesanti, di porte che continuamente si aprono e si chiudono tra lacrime e sorrisi, di malinconici addii e nuovi incontri…. Arthur (alter ego del regista) deve per forza di cose trovare nella metropoli moderna per eccellenza un cielo che coaguli tutti questi frammenti. Non certo il miglior film di Honorè, ma comunque un improvviso bagliore nouvelle vague che illumina il crocevia degli anni ’90 correndo veloce verso il presente.