#Cannes2018 – Plaire, aimer et courir vite. Incontro con Christophe Honoré e il cast

A Cannes si è svolto l’incontro di presentazione dell’ultimo film di Christophe Honoré: storia omosessuale di passione e morte nella Francia anni Novanta vissuta dal regista. In concorso

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Era il 2002 quando il cineasta francese Christophe Honoré giunse per la prima volta a Cannes con il suo lungometraggio d’esordio, Dix-sept fois Cécile Cassard, all’epoca selezionato per Un Certain Regard; da allora, per Honoré, la Croisette è diventata tappa quasi “obbligata”, dal musical sentimentale Les chansons d’amour in concorso nel 2007 fino a Les bien-aimés, con il quale il Festival si chiuse felicemente nel 2011. Ieri – ancora una volta – il cineasta ha incontrato la stampa riunita a Cannes per presentare il suo ultimo lavoro in concorso – uscito nelle sale francesi già giovedì – , dal titolo Plaire, aimer et courir vite: emozionante storia di passione e di morte che mette al centro l’incontro tra il maturo scrittore parigino Jacques (Pierre Deladonchamps) e il giovane studente bretone Arthur (Vincent Lacoste), ritratti nello scenario degli anni Novanta in Francia tra slanci emotivi, amore per la letteratura, per il cinema e un inesorabile senso di fine imminente che grava sulla loro nascente storia.
Honoré plasma il film, da lui sia scritto che diretto, della sua stessa immagine passata, richiamando in causa senza nostalgia quei difficili anni Novanta vissuti da molti all’ombra della malattia (AIDS), eppure non smettendo di mettere al centro un certo – fervente – stato emotivo che connota la giovinezza.

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L’incontro si apre chiedendo da subito al regista il senso di questo emblematico “vite” inserito nel titolo: «È la velocità che volevo dare alla storia raccontata… Avevo l’impressione che anche la vita del personaggio interpretato da Vincent Lacoste, Arthur, acceleri. Avevo intenzione di lavorare su due velocità diverse, con un personaggio che fa il suo “debutto” nella vita e uno, quello di Jacques, che si trova in un momento di rallentamento e di rinuncia. Questa contraddizione era necessaria alla drammaturgia». Ma, al di là della storia costruita e dei rapporti tra i personaggi, Honoré sente forte il bisogno di chiarire durante l’incontro la sua posizione riguardo alla realtà vissuta in prima persona nel corso degli anni Novanta, periodo durante il quale il regista visse la sua giovinezza e del quale sembra aver voluto dissotterrare tracce rimaste nelle profondità più inconsce, della sua memoria e di quella di una collettività: «Per quelli come me è un periodo (gli anni Novanta) di cui si ha ancora una memoria vivida; è un periodo che si è cercato di fuggire il più rapidamente possibile, e trovo che si abbia difficoltà a vederne le tracce “intime”, sotterranee. Nel film si cerca di rimettersi in una “fotografia sensibile” di quegli anni. Ciò che spero è che possa provocare una “memoria accidentale” per i personaggi e per parte del pubblico; c’è qui una circolazione di memorie: trovo che il cinema stesso sia questo, che permetta di sognare ma anche di provocare un ricordo, anche se immaginario, un “ricordo-fantasma”».

Il film è ambientato nel corso del 1993, anno di nascita del giovanissimo attore Vincent Lacoste, che affermerà durante l’incontro di avere sempre nutrito, anche prima delle riprese del film, un certo interesse nei confronti di un’epoca per lui ancora sconosciuta: «Ho scoperto tutto un universo; Christophe ha voluto trascrivere nel film i suoi anni Novanta, e lo ha fatto anche musicalmente». L’altro protagonista del film, Pierre Deladonchamps, era invece già adolescente durante quegli anni, ma soprattutto già ben consapevole dell’esistenza dell’AIDS e dell’evoluzione subita nel tempo dalla malattia e dalle cure mediche per combatterla. Definisce, tuttavia, quel momento storico così caro ad Honoré, come “vago” e “vaporoso” per tutta la sua generazione. La malattia – SIDA in francese – non è però il vero soggetto portante del film, conferma a più riprese il regista, il quale ama definire invece la sua opera come una sorta di soave “dance d’après“: ossia, cosa resta dopo l’allontanamento dei danzatori, cosa c’è di quello che insieme hanno creato, del loro linguaggio d’amore, del loro immaginario stesso. Una danza del dopo è – nella visione di Honoré – ciò che indica, dopo la sparizione dei cavalieri, come fare per continuare a danzare ancora.

Il film racconta anche di ciò che rimane onnipresente per Honoré dal punto di vista dei “fantasmi cinematografici”, ossia dei maestri che hanno nutrito e continuano a nutrire la sua visione: c’è esplicitamente François Truffaut – con una scena girata di fronte alla sua lapide, luogo molto caro ad Honoré fin da giovane – e c’è anche un po’ di Jacques Demy, anch’egli nato come cineasta “di provincia” il quale, per Honoré – venuto dalla Bretagna – , costituì sempre un punto di riferimento rassicurante. E non può non parlarsi a questo proposito anche di un “confronto” tra Rennes – città natale del regista – e la Parigi della maturità e della fama cinematografica: «Da giovane avevo una piccola camera leggera con la quale riprendevo le strade di Rennes, i miei amici; ma la trovavo una città non cinematografica, non filmabile. In effetti, non era così! Per me è importante che Rennes esistesse (cinematograficamente) di fronte a Parigi. Ho un rapporto molto strano con Parigi, perché la guardo da provinciale, e forse per questo posso filmarla in modo più libero rispetto a chi ci è nato».

L’incontro, evidentemente diretto dal regista sotto ogni aspetto, si conclude con alcune considerazioni rispetto alla fotografia del film, interamente giocata sui toni del blu: «È la quarta volta che lavoro con Rémy Chevrin. Avevo girato i miei due film precedenti in digitale, ma qui volevo ritornare al 35 mm e non per civetteria, ma semplicemente perché con il 35 mm le azioni sono vere azioni… La notte è particolare, volevo fosse blu, colore che non esiste più in Francia perché oggi è tutto sodio e arancio per le strade. Per noi gli anni Novanta dovevano essere blu e così lo abbiamo declinato sull’intero film». Rispetto al frequente accostamento che la critica ha individuato, in seguito alla proiezione di ieri, tra l’opera e il film diretto da Robin Campillo, 120 battiti al minuto, Honoré sembra quasi lapidario, chiudendo l’incontro con i giornalisti con un’idea forte su ciò che ritiene essere solo stereotipo gratuito sul cinema: «Posso capire il confronto tra i due film, ma trovo che ciò che li avvicini sia il fatto di essere opposti! Non vedo perché si debba paragonare dei film solo sulla base dell’identità sessuale dei personaggi: è una visione ristretta del cinema e di ciò che concerne l’intelligenza dello spettatore!».

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