#Cannes2018 – The Gentle Indifference of the World, di Adilkhan Yerzhanov

Una bellissima parabola su gioie e dolori di una naïveté che non sembra avere diritto di cittadinanza nel mondo. Se non come rivendicazione utopica di una bellezza resistente. Un certain regard

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La morte tocca tutti, prima o poi. Ma è comunque una condanna solitaria, mentre le cose continuano il loro corso imperturbabile. È “la tenera indifferenza del mondo”, come diceva Camus. Ed è l’orizzonte lungo cui si muovono i personaggi di Adilkhan Yerzhanov, che cita esplicitamente proprio l’autore de Lo straniero durante il suo dolente racconto di vite alla deriva.

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La famiglia della splendida Saltanat ha una fattoria tra le smisurate pianure seminate a grano del Kazakistan. Quando il padre, oberato dai debiti, si toglie la vita, la ragazza decide di andare in città per chiedere aiuto a uno zio che bazzica il losco mondo degli affari. Ad accompagnarla c’è il poderoso Kuandyk, neanche troppo segretamente innamorato di lei sin dalla più tenera età. I due formano una coppia all’apparenza impossibile, per differenze di carattere ed educazione. Saltanat è laureata in medicina, ha una delicatezza coltivata dallo studio e dall’amore per la lettura. Kuandyk è un energumeno senza arte né parte che racimola qualche soldo in incontri di lotta clandestini. Ma custodisce anch’egli il segreto di un amino gentile, legge di nascosto i libri di lei, ha la passione del disegno ed ha tutta l’intenzione di conquistare una posizione rispettabile per difendere il suo amore, la cosa “più importante” di tutte. Ma il mondo che incontreranno là fuori, nella corrotta desolazione della città, non ha alcuna intenzione di aiutarli.

È davvero lancinante il modo in cui Yerzhanov affronta questa parabola sulla purezza di un sentimento infranto dalle prove della vita. Innanzitutto per come mette a confronto lo splendore immobile dei paesaggi kazaki con la spoglia cupezza noir, tra il malinconico e il minaccioso, degli interni. Sempre lungo la traccia delle suggestioni letterarie e ancor più di quelle pittoriche, che dettano il punto di vista e il perno della costruzione della forma. E non è un caso che a spirito guida venga eletto proprio Henri Rousseau “il doganiere”, i cui dipinti scandiscono le scene e punteggiano il ritmo del racconto, in un dialogo ideale con i disegni infantili e brutali di Kuandyk che esplodono in tutto il loro fulgore fantastico, quasi chagalliano, nella meravigliosa scena del viaggio immaginario tra i musei di Parigi. È lì, per un istante, che la libertà del sogno e del desiderio cura l’anima e ridisegna le coordinate del’universo. Gioia e dolori di una naïveté che non sembra avere diritto di cittadinanza nel mondo. Se non come rivendicazione utopica di una bellezza resistente. Yerzhanov filtra il suo punto di vista sul reale secondo i modelli “immaginari” dell’arte. Mette in mostra un figurativismo “nativo”, centroasiatico, che va dal naturalismo dei paesaggi alla bidimensionalità da icone dei personaggi. E conduce l’azione fino ai punti limite dell’astrazione, come se guardasse alla purezza cristallina, “primitiva”, di Kitano, quello che sospende l’action tra le ellissi e i rovesciamenti a sorpresa del montaggio, quello che affida le esplosioni di violenza al pudore del fuoricampo. Lo stesso protagonista, Kuandyk Dussenbaev, sembra un giovane Beat Takeshi, dal volto impassibile eppure attraversato ogni tanto dall’epifania di un sorriso beffardo e doloroso. E quei quadri che accompagnano le immagini di Yerzhanov sembrano altri fuori di fuoco venuti dal pennello di Machisu di Achille e la tartaruga. Tutto sembra condurre, semplicemente, alla constatazione rassegnata della disperazione. Ma resta qualcosa, il tentativo di una fuga impossibile, l’amore che non si piega, un altro contatto delle mani. Qualcosa che non sparisca… Un ultimo gesto qualsiasi di bellezza umana…

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