#Cannes2019 – Beanpole, di Kantemir Balagov

Al secondo film, Balagov sembra rischiare la normalizzazione accademica, ma in realtà conserva più tracce della sorprendente irrequietezza dell’esordio. In Un certain regard

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“Sì… ma Tesnota era un’altra cosa”. Sarà questa la frase più ricorrente, è chiaro. Del resto, dopo il grande consenso ottenuto con il film d’esordio, Kantemir Balagov era in qualche modo atteso al varco qui a Cannes. Come se fosse sempre questione di varchi, di porte da attraversare con gli assassini nascosti nell’angolo, di prove da superare. E non di percorsi personali, di strade solitarie. Più semplicemente e umanamente.

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Sì, è probabile che Beanpole sia un film meno vibrante e potente di Tesnota. Del resto là Balagov esplorava zone di tensione ancora poco battute e si sintonizzava sui punti di crisi del presente. Era costretto a inventare la propria forma, la maniera di inquadrare e raccontare certe cose e certi mondi. Qui, invece, sceglie di tornare a uno dei momenti cruciali della storia e della grande tradizione del cinema russo e, per forza di cose, deve fare i conti con un apparato di immagini già segnato e strutturato. Le vicissitudini di Iya la spilungona e di Masha, due amiche che cercano di sopravvivere allo sbando dell’immediato dopoguerra, in una Leningrado ancora stremata dalla follia dell’assedio, potebbero perciò assomigliare a qualsiasi altra via crucis di reduci e sopravvissuti, con tutto il corredo possibile e immaginabile di segni, di cicatrici, fisiche e morali. E poi c’è la questione del décor, degli spazi, degli oggetti, della correttezza filologica della ricostruzione, che tra l’altro Balagov riduce quasi completamente agli interni, la stanza di Iya nella casa in coabitazione, l’ospedale dove lavora la spilungona, una grande villa che ricorda la gloria della Pietroburgo che fu… Quasi a voler sottolineare l’impressione di un controllo formale totale, una volontà di cura che metta al riparo da ogni eccesso e da ogni “errore”. E dunque, ritmi lenti, dialoghi pensati e puntuali, grandi interpretazioni, pulizia e precisione. Si torna al già visto, insomma, su posizioni accademiche.

Eppure, al di là dell’apparente normalizzazione, lo sguardo di Balagov conserva più tracce della sorprendente irrequietezza del film precedente. A cominciare da quel senso di chiusura e costrizione, quella prossimità claustrofobica che non vuole lasciare aria intorno ai corpi e ai volti. D’altro canto è proprio un soffocamento a segnare il punto di svolta fondamentale della storia, in una scena che procede impassibile, senza alcuna sottolineatura drammatica, ma di una durezza difficilmente tollerabile. Il cinema di Balagov non mette mai in una posizione comoda. Incontra i personaggi a partire dal lato marginale di un dettaglio, uno stivale, una valigia, incrocia sguardi rivolti al fuoricampo, persi in un sorriso e in un pensiero insondabile oppure semplicemete nel nulla… Tutto conduce a un’inquietudine amplificata dalla sottile fibrillazione di inquadrature che solo apparentemente sono fisse e che invece ondeggiano impercettibilmente, quasi fossero settate sull’onda di scrittura di un sismografo.

Balagov, insomma, segue la sua strada. Al punto che riproietta al passato questioni tutte presenti, l’eutanasia, la maternità in prestito, l’omosessualità. Sta sul privato ma nell’istante in cui entra in rotta di collisione con gli interrogativi dell’etica e della storia poltica e sociale. Sul settimo satellite. Ma soprattutto racconta ancora una volta di donne in cerca della loro libera uscita dal caos. E conferma il suo straordinario talento nel tirar fuori il meglio dalle sue interpreti, Viktoria Miroshnichenko e Vasilisa Perelygina, in grado di dar corpo e sangue alle sue visioni.

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