#Cannes2019 – Diego Maradona, di Asif Kapadia

Asif Kapadia con Diego Maradona compie una scelta di campo precisa. Diego, infatti, rappresenta qualcosa di oltre e raccontare Lui vuol dire mostrare il suo mondo e la sua casa: Napoli. Fuori concorso

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Su Maradona si è già detto tutto, fino allo sfinimento. Alcuni poi, inebetiti dalla sua potenza carismatica si sono addirittura inoltrati in analisi mistiche, in interpretazioni sociopolitiche, in disamine storiografiche. Solo troppe chiacchiere per sfruttare fuori tempo massimo il suo carisma trascendentale e approfittare dell’amore dei tifosi. Parliamoci chiaro, però. Qualcuno, davvero, sente il bisogno di ascoltare ancora una volta la storia del figlio della povertà argentina arrivato, grazie al suo talento, ad essere il giocatore più forte di sempre? Asif Kapadia, coraggioso oltre ogni limite, conosce bene l’inflazione narrativa intorno al suo soggetto e affronta il mostro Diego prendendolo di petto. Già con la scelta del periodo da trattare, il regista segna la sua presa di posizione. Diego Maradona, infatti, è la storia di Maradona in Italia, quella che, come affermano nel film, è la vicenda essenziale della sua grandezza. I 7 anni napoletani di Diego come il Vangelo secondo Marco, raccontano l’avvento e la crocifissione di una divinità, pochi anni che, da sinneddoche, sintetizzano un’intera esistenza.

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Kapadia sa bene che parlare solo di Maradona sarebbe un errore capitale. Diego rappresenta qualcosa di oltre e raccontare Lui vuol dire mostrare il suo mondo e la sua casa. E’ anche per questo che Diego Maradona è un film su Napoli e la sua magnifica disgrazia. Le immagini rubate che ci restituiscono la città alla fine degli anni ’80, sembrano arrivare da un tempo ancestrale, da uno spazio siderale. I deliri e la passione malata, la commozione e l’orgoglio, l’amore violento e cannibale che tutto un popolo riversa sul suo santo fuoriclasse, traspare in ogni singola inquadratura. Diego è quasi una comparsa in questa scenografia di entusiasmi e convulsioni.

Napoli, ideologicamente tanto simile a Buenos Aires o a Città del Messico, diventa il paradigma di un intero Meridione globale che ha trovato in Maradona non solo il figlio prediletto, ma il campione del riscatto, la rivincità personificata. Questa simbologia arriva naturale, non è mai sottolinea o ostentata. La retorica, appassionata ma banale, da terzomondisti, è lasciata ad altri.

Il ruolo simbolico di Maradona, però, non impedisce a Kapadia di affrontarne le oscurità. Alle prese con la parabola di un personaggio non solo ancora vivo, ma ancora oggi produttivo di un immaginario personale mai domo, il regista inglese mostra il suo lato putrescente, le sue amicizie imbarazzanti (il grande spazio lasciato ai rapporti tra il giocatore e la Camorra) i suoi eccessi idioti, la sua megalomania e la sua vigliaccheria (la triste vicenda del figlio non riconosciuto). Se non si fosse drogato sarebbe diventato ancora più grande, ci siamo ritrovati spesso a dire ripensando (o immaginando) il talento di Maradona. E, oltre tutte le letture impegnate, è questo il primo, immediato, messaggio che Diego Maradona vuole consegnarci. Come i tanti difensori visti cadere per terra, impossibilitati a contenerne il genio furioso, anche gli spettatori si trovano disorientati dietro i suoi dribbling e le sue finte. Chi abbiamo di fronte, il ragazzo capace di atti di puro amore, come testimoniato dagli straordinari home movies privati, o l’arrogante star generosa di evitabili provocazioni?  Non lo riusciremo a capire. Possiamo solo applaudire, come di fronte alla punizione contro la Juventus o al gol del secolo contro l’Inghilterra, in un loop calcistico che non ci annoierà mai.

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