#Cannes2019 – Dolor y gloria. Incontro con Pedro Almodóvar e il cast

In un incontro trionfante, Pedro Almodóvar e i suoi attori-feticcio Antonio Banderas e Penélope Cruz raccontano quella che, probabilmente, è stata la loro collaborazione più sentita e appassionata

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In un incontro decisamente sentito e a tratti commovente, Pedro Almodóvar ha presentato al Festival di Cannes Dolor y gloria, immediatamente celebrato da pubblico e critica, dove in chiave romanzata ripercorre tutta la propria vita, la propria carriera e il suo rapporto morboso e allo stesso tempo salvifico con il cinema. È un Almodóvar “glorioso”, verrebbe da dire, quello che viene dalla prima del film, come detto assolutamente ben accolta, tanto che definisce la serata precedente come “indimenticabile” per lui. Ad accompagnarlo i fedeli Antonio Banderas e Penélope Cruz, anch’essi più che entusiasti ed emozionati (è stato “imbarazzante, da non sapere quasi come reagire”, racconta l’attore), insieme agli attori Nora Navas, Asier Etxeandia e Leonardo Sbaraglia.

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Per Antonio Banderas esperienza di Dolor y gloria è stata “provante“, (anche perché, poco tempo prima delle riprese, è stato colpito da un infarto, ndr), in cui ha dovuto: “trovare un nuovo me stesso, diventare un nuovo Antonio Banderas” (dopo ritornerà sulla questione, rimarcando, più incisivamente, che ha dovuto praticamente “uccidere Antonio Banderas“). Nel film interpreta Salvador Mallo, un regista ormai in declino, corrispettivo sullo schermo dello stesso Pedro Almódovar, che ripercorre nostalgicamente il suo passato. A partire dagli anni ’60, quando si era trasferito in un villaggio nella regione con i suoi genitori nella regione di Valencia. Tornano così a galla i primi desideri, il primo amore nella Madrid degli anni ’80, la precoce scoperta del cinema e l’incapacità di continuare a girare.
Per l’attore si tratta di un film “sulla riconciliazione, sulla circolarità, sugli spazi, sul tenere aperta la nostra vita e rimanere vicini alla nostra famiglia, ai nostri cari. Forse è per questo che le persone si sono relazionate al film così tanto, perché tutti hanno avuto queste esperienze così dolorose nelle loro vite“.
Dolore, quindi, ma anche gloria, sensazioni che si contrappongono nel titolo e costellano la vita del protagonista. Ma se il primo, per un artista tormentato può essere un alimento per la propria creatività, la seconda può rappresentare un ostacolo? Per Pedro Almodóvar assolutamente no, anche perché per lui la gloria, come il dolore stesso, “è relativa e personale e cambia per ognuno di noi“. È più uno “stato mentale”, dice, che prescinde dalla ricchezza o da quanto può esser bella la casa in cui vive, per esempio, il protagonista. La definizione di successo per il regista sta allora “nel raccontare storie, nella capacità di “realizzare il film che voglio fare”, senza che altri possano in qualche modo comprometterlo.

S’intuisce, da queste parole, quanto il film sia sicuramente personale tanto per l’autore, quanto per gli interpreti, che da lungo tempo lavorano con lui e adesso si ritrovano a impersonare la sua vita. Realtà e finzione sono infatti i concetti chiavi della pellicola, l’equilibrio tra essi il motore della storia, e non è un caso nel corso dell’incontro vengono ripresi continuamente.
A tal proposito, si chiede quindi agli attori come hanno fatto a trovare il “loro” equilibrio, tra la loro conoscenza della vita e della personalità reale del regista e la sua conseguente messa in scena. Antonio Banderas, che Almodóvar definisce affettuosamente “la mia famiglia americana”, racconta di aver pensato, in principio, di dover appunto portare con sé “tutto il bagaglio dei 22 anni di collaborazione” col regista, che di riflesso gli ha però risposto:”ok, ma non m’interessa questo“. Ha dovuto quindi dimenticarli tutti, “cominciare dall’inizio, aspetto che che ha portato al “mese di riprese più felice da quando faccio l’attore”, afferma visibilmente commosso.
Penélope Cruz, che dal canto suo interpreta il personaggio di Jacinta, madre di Salvador (e quindi di Pedro), chiarisce quanto l’approccio al ruolo, in questo caso, sia stato decisamente unico rispetto a tutti gli altri: “normalmente quando lavoro con Pedro parliamo tanto a riguardo, mi fornisce molti dettagli. Stavolta ho sentito di non dover fare molte domande, e la cosa mi ha sorpreso molto”. Anche perché tale atteggiamento non è nato da una richiesta esplicita del regista, ma da lei stessa, che ha quindi preferito usufruire della “meravigliosa sceneggiatura” e del profondo “rispetto” che nutre per l’autore e per ciò che ha scritto. Avendo poi avuto la fortuna di aver conosciuto la sua vera madre, Francisca, dove ha potuto osservare e comprendere il legame tra loro e l’influenza, l’ispirazione che la donna deve aver esercitato sulla carriera artistica del figlio.

Sulla complessità, quindi, di mettere in scena la propria vita, interviene infine il diretto interessato: ”quando parli di te stesso, necessariamente devi includere altre persone, e questo può essere veramente difficile, perché tu esponi, oltre la tua vita, anche la vita di altre persone, e quindi devi stare attento. La mia vita è sì riflessa nel film, ma non letteralmente. Di vero ci sono i desideri, le preoccupazioni, la famiglia, l’infanzia: tutte queste cose rappresentano me e i miei sentimenti“, ma, appunto, non necessariamente fatti realmente accaduti. Verità e finzione, quindi, alla scrittura come nel film e a tal proposito l’autore chiarisce, per esempio, che una scena del film dove Jacinta e Salvador hanno un diverbio acceso, con parole e gesti anche crudeli, non corrisponde alla “sua” realtà, in cui non ha mai avuto un simile scontro la propria madre. Eppure, aggiunge, girare quella scena  lo ha portato a ripensare e a rivalutare il proprio rapporto con lei: “talvolta nella finzione finisci con scoprire qualcosa di te stesso“.

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