#Cannes2019 – Il tempo si è fermato

Al di là delle apparenze, tutti i disagi di un festival impermeabile al tempo. Dove la passione per il cinema rischia di trasformarsi soprattutto in fatica. Fisica e mentale

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C’è stato subito un colpo di fulmine con il Festival di Cannes. Sin da quando ho seguito la prima edizione. Anno 1994. Vince Pulp Fiction, proiettato il penultimo giorno. Era strafavorito Film rosso di Kieslowski a anche Caro diario di Moretti sembrava avere anche qualche buona chance per farcela. Avevo 25 anni. Ed ero stato abbagliato dalla maestosità di un evento che non avevo mai visto da nessuna parte. Avevo viaggiato in treno di notte. E prima di arrivare avevo conosciuto un signore piuttosto anziano. Aveva una spilletta con la Palma e veniva al festival da 50 anni. Poi ho scoperto che era molto conosciuto. Lo chiamavano Monsieur le cinéma. Un giorno, su Nice-matin, c’era anche una sua foto con Gilles Jacob, l’allora Delegato del festival. Forse Agnès Varda si era ispirata a lui, con il personaggio di Michel Piccoli, in Les cents et une nuit.  Una mattina avevo letto una sua intervista. Parlava anche della magia di dormire in sala. Per me, allora purista uscito dall’università con tanta presunzione, molte certezze e pochi dubbi, mi sembrava una cosa inaccettabile. Negli anni, anche grazie a Ghezzi e Fuori Orario con nottate intere passate sul divano tra il sonno e la veglia, ho scoperto veramente l’elisir della felicità di Monsieur le Cinéma. Quell’anno c’era la retrospettiva su Jean Renoir. Ero stordito dalla quantità di film. Un certain regard, la Quinzaine. Gli ABBA mi sono risuonati in testa per tre giorni dopo aver visto Le nozze di Muriel. E scoprivo le sale del mercato, la Montée des marches. La Croisette che era illuminata tutta la notte. Feste sugli yacht, accessi in sala solo in smoking. Ero attratto da quella grandeur così snob, da quella divisione degli accrediti tipo feudalesimo. E di sentirmi un privilegiato per il solo fatto di essere lì.

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2019. Sono passati 25 anni. C’è ancora Tarantino. Stavolta con Once Upon a Time… in Hollywood. Che, per celebrare la ricorrenza, viene sempre presentato lo stesso giorno, il 21 maggio. Tante cose sono cambiate. Per prima cosa, con la persona che ero 25 anni fa, oggi non ci prenderei neanche un caffè. Eppure il Festival mi appare sempre lo stesso. Fuori tempo. Con l’unica differenza dei controlli. Iniziati nel 2002 dopo l’11 settembre e diventati sempre più serrati. Per ogni proiezione sembra di prendere un volo da Teheran. Con addetti che spesso sbuffano perché non sei abbastanza veloce a riprendere gli oggetti. Perché suoni al metal detector. Perché hai la bottiglietta d’acqua mezza piena. Ci sono interi sacchi della spazzatura con cibo sequestrato: frutta, biscotti. Un giorno a qualcuno volevano togliere anche le pasticche per il cuore. Se sei cardiopatico, al Grand Théâtre Lumière rischi di non poter entrare. In più, è successo ad alcuni spettatori che hanno passato il controllo, di non riuscire a trovare posto in sala perché piena. Ma non lo sapevano prima? E magari risparmiare la fila alla gente. Che avrebbe potuto provare a vedersi qualche altro film?

L’impermeabilità diventa anche chiusura. La grandeur che mi attraeva nel 1994 è diventata ora una specie di parodia. L’etichetta a tutti i costi. E nell’allucinazione, non mi sorprenderei di vedere persone vestite come il Re Sole o la Regina Maria Antonietta. Sembra la restaurazione. Le novità non passano. Il caso Netflix, il divieto di farsi i selfie in un luogo che sembra un tempio sacro. D’altronde, l’organizzazione non sembra più essere quel modello di efficienza di qualche anno fa. Il pubblico sembra essere sempre più ammassato. Quando si incrociano le file tra la  sala Debussy e la Lumière, è impossibile passare attraverso i blocchi di persone. Quando piove la situazione si complica ulteriormente. Si possono fare lunghe file sotto l’acqua o il sole cocente. Non c’è nessuna copertura. Neanche provvisoria. E quando si arriva in sala, si ha la sensazione di aver tagliato il traguardo. E se si prova ad attraversare la strada, sulle strisce pedonali, o con il verde, c’è un nuovo codice della strada: le macchine belle hanno sempre la precedenza. Un festival che esibisce la sua distinzione di classe. Tra i ‘Re Sole’ e i ‘poracci’. Dove nessuno tra gli addetti sa dirti dove si trova un deposito bagagli (episodio accaduto sabato sera) e dove il bagno degli uomini vicino alla sala Bazin è chiuso da quattro giorni.

Sembra quasi un esperimento scientifico-sociale. Si mette il maggior numero di persone in uno spazio sempre più ristretto. Dove c’è chi urla al telefono e ti spacca il timpano nel sesto/settimo controllo della giornata per entrare in sala. Si calcolano diversi elementi: la tua rabbia, la tua rassegnazione, la tua pazienza, il tuo tempo di reazione davanti a una situazione di disagio.

Il tempio del cinema si trasforma nella fatica per il cinema. La passione fa fare tanti salti mortali. Ma ve vale ancora la pena? Con l’età che avanza. Una volta era il festival preferito. Ora è invece quello che sta invecchiando peggio.

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