#Cannes2019 – La famosa invasione degli orsi in Sicilia, di Lorenzo Mattotti
Mattotti si rivolge non solo alla storia di Buzzati, ma anche alle sue illustrazioni originali. E perciò sospende le immagini in una dimensione fuori tempo, carica di allusioni, suggestioni e mistero
Lorenzo Mattotti è artista e fumettista di gran carriera. Sono suoi anche i disegni che aprono i capitoli di Eros di Antonioni, Wong Kar-wai e Soderbergh. Quando per il suo esordio alla regia sceglie di animare La famosa invasione degli orsi in Sicilia, non ha in mente solamente il racconto di Dino Buzzati, pubblicato a puntate sul Corriere dei Piccoli nel 1943 e raccolto in volume lo stesso anno per Rizzoli. Una storia per grandi e per piccini: l’orso Leonzio, che guida i suoi compagni affamati dalle montagne innevate fino alle città a valle, si ritrova a combattere contro le truppe del Granduca di Sicilia, le sconfigge, ritrova suo figlio Tonio rapito dai cacciatori, e diventa il nuovo re, iniziando un’epoca di pacifica convivenza. Finché i vizi degli uomini non iniziano a corrompere anche gli animi e le abitudini degli orsi.
In realtà Mattotti sembra guardare sopratutto alle illustrazioni originali di Buzzati, appassionato pittore in libero movimento tra atmosfere simboliste, surrealiste e metafisiche e che, in qualche modo, semplifica il suo tratto e il suo approccio per La famosa invasione degli orsi in Sicilia, vista la destinazione primaria a un pubblico di bambini. Ma ciò non toglie nulla al fascino di queste tavole che sembrano assomigliare a una cronaca dipinta medievale, fatta di prospettive imperfette, impacciate e di piccole figure che si affollano e si muovono tra montagne innevate e città murate. Questa semplificazione è ben chiara a Mattotti, nel momento in cui deve modulare il suo stile sul riferimento dei disegni di Buzzati. Ed è in questa direzione che spinge il film. Semplificazione delle forme fino a un’impressione di replica indefinita delle figure, deformazione allusiva delle proporzioni (l’asparago professor De Ambrosiis), stilizzazione degli ambienti e degli oggetti. Insomma, un antinaturalismo che si traduce anche in un’astrazione dei movimenti, che valgono più a delineare traiettorie grafiche che per un’effettiva funzionalità dei gesti. Come nel contrasto tra i vitali e disordinati balli degli orsi e quei cortei marziali di accentuata simmetria. Si potrebbe discutere anche delle suggestioni fumettistiche, sino a rintracciare l’influsso di una linea chiara che esclude le ombre e sottrae volume. Ma la luminosità piena, “primaria” dei colori vale a dare vita alle immagini, a farle scintillare. Eppure tutto rimane sospeso in una dimensione fuori tempo, carica di allusioni, suggestioni e misteri.
Una dimensione da fiaba, forse, compresa la cornice del “cantastorie” e della piccola Almerina (nome della moglie di Buzzati) che raccontano la famosa invasione per intrattenere un vecchio orso. La tradizione orale, lo spettacolo di strada : è questa la principale invenzione della sceneggiatura di Mattotti, Jean-Luc Fromental, Thomas Bidegain, che, d’altro canto, operano di sottrazione su alcune svolte della storia originale, forse proprio per rischiararne le ombre più dense. Ma resta l’inquietudine profonda di questo sguardo sulla natura, sulle possibilità di una coabitazione, sulla malattia sottile degli esseri umani. Resta quest’aria di morte, guerra, quest’inevitabilità della separazione. Lasciate in pace queste storie, avverte l’anziano orso con la voce di un altro consumato narratore come Camilleri. Vale a dire, i racconti e le immagini sono tracce alla superficie di una parola e di un’essenza più segrete e misteriose. Rassegnamoci alla non chiusura, all’inspiegabilità del segreto più profondo.