#Cannes2019 – Little Joe, di Jessica Hausner

La Hausner conduce alle estreme conseguenze la tendenza all’astrazione del suo cinema per costruire una metafora su sentimenti e paure costantemente dissimulati. In concorso

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Un laboratorio inglese crea e coltiva in serra nuovi tipi di piante, ottenuti attraverso processi di modificazione genetica. Alice è la responsabile dell’ultimo ambizioso progetto, un fiore capace di diffondere felicità con il suo profumo. Un nuovo “parto” che richiede lavoro, cura, attenzione, precauzione. Una dedizione materna, insomma. Al punto che, significativamente, Alice battezza il fiore con lo stesso nome del figlio adolescente: Joe… Little Joe… Proiezione emblematica, da manuale.

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Se Shyamalan aveva costruito la straordinaria parabola metafisica di The Happening a partire dal pretesto fantastico di una tossina degli alberi, la sortita botanica della Hausner si concentra sui fiori. Ed è segno di un altro gusto estetico che gioca con la tavola degli elementi e con quella dei  colori, tra blu, violetti, rossi carminio. Per non parlare dei colori pastello delle pareti e degli oggetti, fino ad arrivare ai capelli carota della protagonista Emily Beecham. Roba da favola per bambini, si dichiara. Sì. ma per bambini “non umani”, piccoli germogli di fiori da laboratorio, coltivati nello spazio neutro di una serra. Perciò, sebbene l’invenzione fantastica sia alla base dello spunto di partenza, si ritorna subito a un regime di austerità rigorosa. Del resto, la Hausner ha altri obiettivi: si pone il problema dei limiti della sperimentazione e punta alla metafora vagamanete horror di una psico-analisi dei comportamenti e delle relazioni.

Questioni di approccio scientifico, dunque. E non è un caso che la credibilità e verificabilità delle implicazioni del plot siano tra i nodi dell’operazione (come dimostrano i contributi dei neuroscienziati raccolti sul pressbook che accompagna la proiezione). È possibile che il polline di un fiore produca un virus capace di infettare gli esseri umani e modificare i loro comportamenti? Parrebbe davvero di sì, ma non è questo il punto. Il punto è che la scienza, vera o presunta, chissà perché deve portarsi dietro un razionalismo e un funzionalismo delle forme. E così, per raccontare la sua storia di cambiamenti interiori, di desideri, sentimenti e paure costantemente dissimulati, di mascheramenti forzati, la Hausner conduce alle estreme conseguenze la tendenza all’astrazione del suo cinema. Con tutti i mezzi possibili: l’apparato scenografico, con gli interni, lineari, puliti e “sintetici”, con quell’accentuazione del gioco cromatico, con quelle pareti dal fondo uniforme su cui si “appoggiano”, quasi fossero schiacciati, i piani dei personaggi. Una sensazione di bidimensionalità accentuata dall’interpretazione piana, neutrale, quasi anaffettiva degli attori. Come se fossimo in un film di Ozu, ridotto però a un mondo di modellini, di figurine di carta da riso (o da zucchero). E poi la musica dissonante, inquieta, da “teatro” giapponese, di Teiji Ito, che componeva per i film di Maya Deren negli anni ’40.

La Hausner crea quest’universo giapponese in Inghilterra, forse per creare un ponte tra due dimensioni sociali che tradizionalmente privilegiano la forma e l’etichetta rituale dei comportamenti all’esternazione dell’effettiva sostanza dei sentimenti. E su questo, ovviamente, interviene la grande “invenzione” psicanalitica come sistema di svelamento e di normalizzazione. Bene, tutto a suo posto. Se non che, in questo congelamento della forma, la Hausner è condannata alla stessa assenza di empatia condanna dei suoi personaggi anestetizzati. Il suo bel cinema da serra, educato, pulito, inattaccabile, pecca per un eccesso di devozione mimetica al suo oggetto. Gli importa poco di noi. E non possiamo che ricambiare.

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