#Cannes2019 – Parasite, di Bong Joon-ho

Una commedia nera che si trasforma in un gioco al massacro dove i protagonisti sono le pedine del cineasta. In un cinema che puzza di forma e in cui l’immaginario visivo appare riciclato. Concorso

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La strada, gli interni. Dove c’è spesso qualcosa che viene nascosta. Il cinema del coreano Bong Joon-ho è spesso pieno di zone d’ombra. Che si possono manifestare a livello più intimista come in Mother. Ma che possono costituire anche il nucleo narrativo principale (i delitti di Memories of Murder). Oppure manifestarsi anche al livello di spazi. Il treno di Snowpiercer sembra avereuna conformazione più irregolare nello scantinato di Parasite. Però appaiono luoghi infiniti. Che dietro una porta, se ne apre ancora un’altra.

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Forse anche Parasite, come The Host, è un film di mostri. Si, non è sci-fi. Anche se il titolo potrebbe ingannare. Perchè dietro ogni volto dei protagonisti, sembra nascondersene un altro. Quasi satanico. Come se fossero pronti a un’improvvisa

mutazione. Questo sicuramente avviene per tutta la famiglia Ki-taek. Vive in uno scantinato, cerca ai collegarsi a qualunque wi-fi degli altri. E padre, madre e i due figli sono tutti disoccupati. Il figlio però trova un impiego come insegnante di inglese della figlia della ricca famiglia Park. Visti gli ottimi risultati, riesce a far assumere tutti gli altri. Poi però, una scoperta inaspettata scatena una serie di eventi incontrollabili.

Dopo la trasferta statunitense di Snowpiercer e Okja, il cineasta coreano torna in patria con una commedia nera che si mescola alla satira sociale. Dove ogni azione sembra tutta controllata al millimetro. Soprattutto nella scena dove le due famiglie si trovano, all’insaputa dell’altra, nello stesso soggiorno. Lo scarto sociale è diretto. Ed entra in gioco un’altro elemento di Bong Joon-hoo, ossia quello dell’identità. I Ki-taek guardano i Park per prenderne il posto. Il metodo è sicuro. Anche funzionale. Ma schematico. C’è spesso un’inquadratura di troppo nel suo cinema, una disperazione e, insieme, un umorismo sempre controllati. Una recitazione nella recitazione che diventa ripetitiva una volta svelato il gioco. Traiettorie geometriche che poi si spezzano come nella festa del bambino. E in cui scatena quel delirio che puzza ancora di forma. Cerca continuamente lo spiazzamento. Anche con l’uso di brani particolari come In ginocchio da te di Gianni Morandi. Ma in realtà la strada è molto sicura. Non c’è nessuna intenzione di smarrirsi.

Bong joon-ho usa i suoi protagonisti come pedine per il suo gioco al massacro. Haneke non è poi così lontano. Ricicla il proprio immaginario visivo come nella scena della pioggia che ha allagato l’abitazione dei Ki-taek. Nella distinzione di classe non gli interessa il mistero del’ottimo Burning di Lee Chang-dong, in concorso proprio l’anno scorso. E le sue famiglie sembrano lì proprio per il tempo del film. Nascono e muoiono con lo script. Tutto all’opposto di quelle di Kore-eda. Di cui si vorrebbe vedere la vita che c’era prima e quella dopo.

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