#Cannes2019 – Roubaix, une lumière (Oh Mercy!), di Arnaud Desplechin

Desplechin racconta l’amore per la sua Roubaix a partire dalla cronaca. Ha un approccio spiazzante, ma che ricompone in forma attraverso la trama delle sue visioni e le tracce del suo cinema

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Desplechin ha sempre avuto uno sguardo particolare su Roubaix. Ma più che raccontare la dimensione concreta dei luoghi, la realtà di quegli spazi di confine, ha messo in mostra film dopo film una sua idea della città natale, una visione particolare filtrata attraverso la prospettiva dei sentimenti, delle impressioni o dei ricordi. Una Roubaix singolare, proiezione e riflesso delle vite dei protagonisti, delle allucinazioni delle loro “malattie”, in grado di cambiar forma di volta in volta: “fantasmatica, incantata, sotto la neve, uno spazio mentale…”, come ci raccontava Desplechin nella lunga conversazione che abbiamo avuto non molto tempo fa.

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Ora, finalmente, Roubaix diventa la protagonista assoluta. Ed è una Roubaix vera, contraddittoria, che mette in mostra il suo aspetto austero, ma ancor più le sue crisi. Un luogo sospeso tra la cintura e l’abbandono, tra la frontiera e le macerie postindustriali. Un incrocio di gente che si stringe intorno a un punto d’ebollizione, che cerca di far fronte alla rabbia, al vuoto, alla disperazione, ma che resta troppo prossima all’incendio. Non a caso la prima immagine forte è quella di un macchina in fiamme sul ciglio della strada, con il commissario Daoud che dà l’allarme in centrale prima di tornare a casa. Ed è sempre un incendio a dare il via alla traccia principale della narrazione, dopo una lunga carrellata di casi più o meno ordinari: un tentativo di frode, una rapina a mano armata, una ragazza che scompare, un’altra che subisce una violenza sessuale… e, infine, la morte di un’anziana strangolata nel suo letto. Tutti crimini “effettivamente accaduti”. Che di fatto accadono. E che, a volte, rimangono al di qua della soglia della punibilità, nel limbo della morale messa alla prova dai fatti della vita.

Insomma, il punto di partenza di questo nuovo, spiazzante, racconto di Natale è la cronaca, riattraversata sulla scorta di un documentario per la TV di Mosco Boucault che nel 2002 seguiva la vita quotidiana dei poliziotti del commissariato centrale di Roubaix. Raccogliendo materiale che poi sarebbe confluito in un libro, Roubaix, commissariat central. E si tratta di una traccia lontana anni luce da un cinema che ha sempre manifestato la sua inclinazione alla grande costruzione (e decostruzione) romanzesca. Almeno all’apparenza. Perché per Desplechin tutta quest’aneddotica intessuta d’osservazioni e dati può ricomporsi in una forma solo attraverso una trama di suggestioni visive e letterarie. Così che, un po’ come ne La chambre bleue dell’eterno compagno d’avventure Mathieu Amalric, ci ritroviamo ben presto assorbiti in un racconto di Simenon declinato attraverso un occhio hitchcockiano. Con il riferimento primario alla via crucis inquistoria del Il ladro. Ancora una volta one shot Henry Fonda, come nell’accenno ad Alba di gloria in Jimmy P. Ed è, forse, proprio Jimmy P. il film di Desplechin che più assomiglia a Roubaix, une lumière. Non tanto per le implicazioni, gli intenti, i metodi di ripresa e racconto. Quanto per il suo sguardo “scientifico”, altra ossessione di un autore che spazia dalla casistica patologica all’antropologia e alla psicanalisi, fino ad arrivare qui alla criminologia e alla scienza forense. Una vocazione che è nel DNA delle immagini, che sta lì dai tempi immemorabili del precinema. Ma “prima del cinema” c’è anche, sempre, necessariamente, la vita. E qui sta la grandezza Desplechin. Nella capacità di passare dal cinema per tornare al mondo, come diceva Serge Daney, più volte richiamato in causa. Nella capacità di dissolvere i discorsi intellettuali, i riferimenti, le digressioni per farli confluire nella più indecifrabile dimensione umana. Di lasciare a vista le note a margine, le sottolineature, le pieghe della pagina, non solo per il loro valore di informazione e approfondimento, ma anche e soprattutto perché stanno lì a testimoniare che il testo ha una vita, una storia, ha una consistenza fisica che è fatta pure di lacerazioni, ingiallimenti, di strappi e muffe.

Sì, il commissario Daoud è una grande invenzione “letteraria”, incarnata magnificamente da Roschdy Zem. È un uomo silenzioso, solitario, riflessivo, che si porta dietro un passato da “emigrante”, un esilio appena accennato di umiliazioni, di discriminazioni, di separazioni e fratture. Ma soprattutto, è un uomo capace di mettersi in connessione con gli altri, di comprendere ed empatizzare con i moventi e con le scelte, con la radice “fisica” della caduta e del peccato. È già su un’altra frequenza rispetto al giovane tenente Louis, che ancora si affanna nei dubbi, nell’incertezza del giudizio delle colpe. Per Douad il giudizio non ha senso, perché in fondo si è sempre vittime di qualcosa, di una società, di una malattia che somatizza ed esonda, di una debolezza o una paura che erompe in un gesto irreparabile. Perciò il senso dell’estenuante interrogatorio a cui sottopone i due “mostri” non è tanto quello di conformare una confessione ai fatti, di far coincidere la reinterpretazione della scena del delitto agli effettivi accadimenti. È un altro modo per far risalire una verità interiore, per ristabilire una prossimità. È un’altra strada verso la pietà, la mercy dylaniana del sottotitolo del film. Love and mercy. Amore e pietà. È questa la luce che Desplechin mostra sulla sua Roubaix.

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