#Cannes2019 – Sibyl, di Justine Triet

Terzo lungometraggio della cineasta francese che incrocia la psicoterapia con imbarazzante superficialità, scopiazza Un’altra donna ed esibisce una presunzione senza fine. Concorso

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Ancora una scissione nel cinema di Justine Triet. Il corpo e la mente. Anche quello di Sibyl è diviso tra vita professionale e intima. Come la giornalista di La bataille de Solférino e l’avvocato penalista di Victoria. Soprattutto quest’ultima sembra la reincarnazione di Sibyl. Sempre interpretata di Virginie Efira, mette a nudo tutte le sue contraddizioni e soprattutto entra in un tunnel dove la propria immaginazione contamina la realtà. Il cinema della Triet gioca soprattutto su questa ambiguità. Tra quello che accade realmente e i pensieri/desideri/incubi della protagonista. Dove quello che succede – a cominciare dal rapporto con l’amante – potrebbe essere soltanto nella sua testa.

Sibyl è una psicoterapeuta che vuole tornare alla sua prima passione, quella di scrittrice di romanzi. Decide così di lasciare quasi tutti i suoi pazienti in cerca di ispirazione. Ma improvvisamente riceve una telefonata da Margot (Adèle Exarchopoulos) che la supplica di riceverla. La ragazza è un’attrice in crisi. È incinta e non sa se tenere il bambino. E la implora di seguirla a Stromboli dove sta terminando le riprese di un film.

Lo schema del cinema di Justine Triet appare immutabile. Se in La bataille de Solférino funzionava, ora appare ripetitivo e logoro. La cineasta va alla ricerca di tutti i volti e le personalità possibili di Virginie Efira. A cominciare dalla pagina vuota del file che sta scrivendo, metafora neanche tropo velata della cineasta/sceneggiatrice che sta costruendo la storia mentre la sta girando. E che si materializza nella scena a Stromboli in cui la regista (interpretata da Sandra Hüller, la protagonista di Vi presento Toni Erdmann) non riesce a girare una scena di intimità tra i due protagonisti. Lascia il set gettandosi in mare dalla barca. E la troupe chiede a Sibyl di prendere il suo posto.

Due donne speculari. Una proiezione più mentale (Virginie Efira). Un’altra più fisica (Adèle Exarchopoulos). In un cinema che sembra ragionare sui propri dispositivi narrativi. Ma che è anche un esibito flusso di coscienza. Che si chiude su se stesso, va nell’isola di Rossellini distruggendone il mistero per filmarlo ancora come location di un set nel set. Poi entra con imbarazzante superficialità in un rapporto con la psicoterapia. Dove la vita degli altri può diventare la propria. Le sedute registrate come materia narrativa per il proprio libro. Con una sbirciatina a In Treatment. E, per non farci mancare nulla, una  scopiazzatura a Woody Allen non fa mai male. Con numerose somiglianze con Un’altra donna. Anche lì c’è una scrittrice di mezza età, in cerca di calma e ispirazione che precipita in una vertigine e mette in discussione la propria esistenza da quando ascolta il disagio esistenziale di una donna dallo studio di uno psicanalista vicino al suo appartamento.

Un gran pasticcio. Di dilagante presunzione. Esempio di quei cineasti che fanno di tutto per farsi notare. E il loro piccolo mondo si allarga a macchia d’olio e diventa la rappresentazione di tutto il mondo. E allora non ce n’è per nessuno.

 

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