#Cannes68 – Al cuore dell’inferno. László Nemes e “Son of Saul”

Al suo primo lungometraggio, László Nemes presenta in concorso Son of Saul, un’opera dura e potente che torna ai campi di sterminio di Auschwitz. Il resoconto della conferenza stampa

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Presentata in concorso l’opera prima del giovane regista ungherese László Nemes. Un’opera dura, potente, che ritorna ai campi di concentramento di Auschwitz, ma adottando il punto di vista particolare di un Sonderkommando, cioè di un prigioniero ebreo costretto ad assistere i nazisti nella loro folle opera di sterminio. Son of Saul è un film di chiara vocazione autoriale, ma Nemes, in conferenza stampa, è netto: “un film è sempre un lavoro di equipe. Tutte le problematiche riguardanti la lingua o l’organizzazione del montaggio, fondamentali in un film girato in questa maniera, ci hanno posto delle domande a cui abbiamo dovuto trovare una risposta insieme“.

E riguardo all’idea e il cammino che hanno portato alla realizzazione, “anni fa mi sono imbattuto in questa serie di documenti provenienti da Auschwitz, raccolti sotto il titolo Des voix sous la cendre. Sono stati scritti in totale clandestinità. E si tratta di documenti di un’intensità incredibile, e per le emozioni che mettono in campo e per il loro valore di testimonianza. Al centro quest’uomo, che si trovava in una situazione differente dagli altri, in quanto Sonderkommando. Ma comunque un prigioniero, forse in posizione ancor peggiore, vista la sua consapevolezza del progetto di sterminio nazista. Quello che mi interessava, in questa storia, era la possibilità di scendere al cuore dell’inferno, ma da una prospettiva differente“…

Ovviamente è proprio quello della prospettiva il problema centrale, la questione etica. “L’obiettivo – aggiunge Nemes, di fronte ai dubbi sollevati da qualche giornalista in sala – era di riportare al presente, alla dimensione effettiva dell’essere umano, qualcosa, un’esperienza che molto spesso viene considerata storica e quindi relegata nei libri. Non volevamo fare un film bello, né un film iconografico. Non volevamo lavorare sulle emozioni dalla prospettiva classica dei conflitti. Del resto parliamo di gente che lavorava nei forni crematori. E che dopo pochi mesi, era svuotata di tutto, di qualsiasi emozione”.

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