#Cannes68 – Chronic, di Michel Franco

In Concorso, indubbiamente il film peggiore della competizione sulla Croisette, un’opera inaccettabile e imperdonabilmente programmatica, con un Tim Roth in pericoloso understatement

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Con una classica ascesa da coltivazione protetta in vivaio cannense, dopo la vittoria ad Un Certain Regard del 2012 il messicano Michel Franco viene promosso in concorso con una produzione internazionale, ancora una volta in questa edizione recitata in inglese e benedetta dall’impegno di una star a stelle e strisce.
Il risultato e’ indubbiamente il film peggiore dell’annata 2015 della competizione sulla Croisette, un’opera inaccettabile e imperdonabilmente programmatica, che per imbastire la propria messinscena da distanza di sicurezza sul violento deperimento del corpo umano colpito da malattia irreversibile, decide colpevolmente di optare per una glaciale e mostruosa pulizia dell’immagine sottovuoto, essiccata, ibernata.
Per raccontare le relazioni con alcuni dei suoi pazienti, tutti malati terminali, del’assistente medico domestico David, il regista trasforma ognuna di queste lunghissime sequenze di fisioterapia, abluzioni o nutrizione al capezzale dei moribondi, spesso silenziose o scandite solo dai mugugni e dai lamenti dei malati, in impietose autopsie in altrettante virtuali stanze d’obitorio, che per Franco costituiscono tutte insieme l’eco terribile di un edificio del cinema totalmente e spettralmente disabitato.

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Andrebbe rispedito con forza al mittente il disagio posticcio che questi incontri con quello che ci aspetta alla fine della strada si impegnano in tutti i modi a provocare nello spettatore, rinunciando scientificamente ad ogni dubbio su quanto siano ancora validi i confini di una zona condivisa del pudore, ma filtrando corpi martoriati e figure umane grottescamente sfigurate dal dolore attraverso l’apparente imperturbabilita’ del personaggio interpretato catatonicamente da un Tim Roth in understatement sotto il livello di guardia, capace poi quando giunge il momento di regalare pero’ la morte con chirurgica freddezza (lo script insinua come se non bastasse il dubbio che David possa aver preso una scorciatoia farmacologica all’inesorabile decorso delle malattie finanche del figlio e della compagna…).

Il mistero rimane quello che spinge determinati cineasti ad ostinarsi a piegare la luce del cinema per farla passare attraverso queste trappole claustrofobiche e asfissianti, in modo da dimostrare come poi ci sia ben poco da illuminare, e soprattutto come anche il cinema possa spegnersi al confronto con l’abisso: una convinzione autoriale e freddamente intellettuale contro cui lottiamo da anni, da qui come da dovunque, sara’ perche’ siamo cresciuti con l’altarino dei defunti di famiglia in bella mostra nel salone di casa, e ci e’ stato insegnato a non rifiutare i morti ma pensarli come sempre seduti su quella sedia li, nell’angolo, ad accompagnarci.
Anche la speme ultima dea fugge i sepolcri, sembra voler confermare il regista nell’agghiacciante finale ad effetto, un frammento di cinema talmente pretenzioso e arrogante da chiudere per quanto ci riguarda gia’ definitivamente qualunque discorso sull’opera di Michel Franco.

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