#Cannes68 – Louder than bombs, di Joachim Trier

In Concorso il norvegese Joachim Trier si gioca il credito acquisito con i suoi due film precedenti, con un esordio USA antipatico, lambiccato, contorto ed intellettualoide

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Che confusione ha tirato fuori Joachim Trier dal suo viaggio negli States!
Come se il suo cinema non fosse in alcun modo riuscito ad avere la meglio sul jet lag, il promettente autore norvegese smarrisce le traiettorie nouvelle vague dei suoi due film precedenti e si assesta per quest’esordio americano invece sulle coordinate di certo cinema lambiccato, contorto e celebrale che spesso ci causa reazioni urticanti. Come se per lui il passaggio di riferimenti, parallelo a quello della frontiera, andasse naturalmente nella direzione di una generazione di cineasti di casa negli USA intellettualoide e spocchiosa: non arriviamo alle punte di sconfortante acrimonia di Solondz ma di sicuro Louder than bombs lambisce i territori del vicino canadese Egoyan piu’ scientificamente essiccato, o le riflessioni degli ultimi film di Jason Reitman, sempre piu’ programmaticamente respingenti (l’opera ha parecchi punti in comune con l’ultimo bilioso Reitman di Men, Women and Children).

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E’ un mistero comprendere come possa un regista cosi’ appassionato, come ci pareva Trier sino ad ora, aver deciso di andare fino in fondo con un film talmente antipatico come questo, se non tirando in ballo le tensioni autobiografiche che possono aver animato lo script (Trier viene da una famiglia di artisti e autori del mondo del cinema).
Eppure e’ veramente difficile se non impossibile provare attimi di empatia o compassione per i componenti della famiglia di Isabelle (Huppert), celebre fotografa di guerra sempre in viaggio sotto le bombe tra i conflitti del mondo, morta all’improvviso di incidente stradale.
Come reagiranno al lutto inaspettato e violentissimo i due figli della donna e il marito, il problematico Gene (Gabriel Byrne)? L’evento sconvolgente tirera’ fuori com’e’ chiaro i segreti inconfessati e le tensioni nascoste nelle dinamiche domestiche, piu’ una quantita’ altra di roba (inserti, visioni governate dalla spigolosa divinita’-Huppert, memorie, sogni, voci narranti affastellate e in disaccordo le une con le altre, frammenti provenienti da finti documentari sulla carriera di Isabelle e veri vecchi film di Byrne…) che Trier governa a malapena, ingolfando terribilmente la sua storia con la paura che l’allegoria sul divario tra comunicazione reale/intima e comunicazione artistica/virtuale (le foto d’autore, i racconti che scrive al pc in segreto il figlio piu’ piccolo, Conrad, il padre che per parlarci deve mettersi a giocare in multiplayer ad un videogame online…) non riesca a passare con chiarezza.

E invece cosi’ facendo l’autore perde di vista anche i fasci di luce piu’ luminosi di tutta l’opera, la tenera e sognante passeggiata notturna post-party di Conrad con la ragazza di cui e’ innamorato, e l’intera sezione che riguarda il ritorno a casa del primogenito Jonah (Jesse Eisenberg, totalmente inefficace in una performance particolarmente inerte), in cui facciamo conoscenza del bel personaggio della sua ex, Erin (la bravissima Rachel Brosnahan, scoperta da LaGravenese nel suo Beautiful Creatures), la cui figura, alle prese con la malattia mortale della madre, e’ destinata ad una impietosa dissolvenza in nero in mezzo al pasticcio che Trier ha malauguratamente messo in piedi.

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