#Cannes68 – Macbeth, di Justin Kurzel

Il concorso si chiude con la nuova versione del celebre testo shakesperiano targato fratelli Weinstein. L’ansia di reinventare lo fa schiavo di un’estetica visionaria piena di contraddizioni.

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Certo che è uno strano e deprimente Macbeth quello targato fratelli Weinstein. Più che un altro adattamento per lo schermo del celebre testo di Shakespeare, sembra una nuova e stanca versione di Highlander: i paesaggi della Scozia, le persistenti musiche di sottofondo, i fantasmi del tempo. Del resto Justin Kurzel (al suo secondo lungometraggio dopo Snowtown del 2011), pur essendo anche lui di origini australiane, non è Russell Mulcahy prima maniera. Nel mostrare la vicenda del nobiluomo scozzese che nell’11° secolo viene convinto dalla moglie a far fuori il Re di Scozia, il cineasta si adatta all’estetica dei suoi produttori dove la forma e il testo fagocitano il paesaggio e le pulsioni malate di potere e distruzione.

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marion cotillard in macbethForse non serve neanche confrontare questa versione con quelle di Orson Welles (1948), di Akira Kurosawa (Il trono di sangue, 1957) o Roman Polanski (1971). Si tratta anche di un altro cinema, di una nuova estetica. In cui qui si fa finta di rifare il look al nuovo Macbeth ma si ha anche paura di ribaltarlo. Michael Fassbender viene depurato dalla sua tragicità, Marion Cotillard lascia uscire solo gli occhi dalla sua figura demoniaca. Parlano davanti la macchina da presa, cercano un dialogo oltre il testo, sono forse come fantasmi già morti che il digitale cerca di resuscitare facendoli apparire dalla nebbia, immergendoli nel deserto giallo di Mad Max, creando un montaggio delle attrazioni da videoclip con una violenta danza ritmica tra l’uccisione del Re, la preghiera della Cotillard, il cavallo sotto la pioggia.

Per sfuggire poi da ogni sospetto di teatralità, Kurzel/Weinstein tentano la strada di un horror-rock. Con teste che appaiono dall’acqua come in George Romero, visioni di bambini, soldati come ombre. Eppure alla base c’era la possibilita di una versione ‘povera’ che poteva giocare di depurazione, proprio su una strada che simile alla lettura di Polanski: la luce delle candele sugli ambienti e i rumori dei personaggi, il rumore del vento. Quasi una derivazione da casa Hammer. Macbeth come Frankenstein e Dracula. Ma invece è solo l’ennesima contraddizione di un cinema che, nel suo volere reinventare per forza, diventa solo ingombrante. E anche l’ennesima contraddizione di un concorso che si chiude malamente e di cui quest’anno ne hanno fatto parte troppi film che non ne sono stati degni per la tradizione di Cannes.

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