#Cannes68 – Nahid, di Ida Panahandeh

In “Un certain regard”, il film d’esordio dell’iraniana Panahandeh è un ritratto femminile potente e vivo, che ha l’ambizione di porsi come specchio di un problematica condizione di genere

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Dopo il divorzio, Nahid sta crescendo da sola, e con molta fatica, il figlio di dieci anni. Secondo la legge iraniana non sarebbe spettato a lei l’affidamento, ma l’ex marito, lo sconclusionato Ahmad, glielo ha concesso, ponendole però la severa condizione di non risposarsi. È per questo che quando si fa avanti con insistenza l’appassionato Masoud, Nahid si trova a un bivio decisivo. L’amore o la custodia del figlio? La sicurezza economica di un nuovo matrimonio o il tirare avanti di una vita di stenti e piccoli sotterfugi?
La sceneggiatura di Ida Panhandeh, scritta insieme al marito Arsalan Amiri, ha il merito di porre la sua protagonista di fronte a una scelta drammatica netta, in cui le ragioni del sentimento devono fare i conti con questioni sociali ed economiche pressanti. Da un lato una motivazione profonda, vera, quella di una madre che lotta per tenere in piedi un rapporto con il proprio figlio, già prossimo allo sbano. E, dall’altro, un’aspirazione irresistibile all’indipendenza, alla libertà di poter vivere appieno la verità dei propri sentimenti. Un nodo conflittuale reso quasi inestricabile dalla mentalità e dalle regole di una società ipocritamente maschilista. Ed è proprio a partire da questo nodo che si delinea, con tratti decisi eppur sottili, un ritratto femminile potente e toccante, che si fa carne e sangue nell’interpretazione ispirata di Sareh Bayat (già protagonista, tra l’altro, di Una separazione, il fortunato e pluripremiato film di Ashgar Farhadi). Quello di Nahid è un personaggio vivo, pieno, sincero, una donna abituata a mentire ma non a nascondersi, a rispettare ma non a obbedire ciecamente. È, però, anche lo specchio di una problematica condizione, un “tipo sociologico” che si fa strumento di una sacrosanta rivendicazione di genere.
È chiaro che gran parte dei meriti del film sono già tutti qui, poggiano sulla precisione della scrittura, sulla predeterminazione del senso, sulla consapevolezza del complesso di dinamiche in gioco. Eppure la Panhandeh ha la capacità di sfuggire alle soluzioni narrative scontate e ai cliché del cinema iraniano da esportazione. Già nella scelta dell’ambientazione, una cittadina di provincia che sta a metà tra il mondo rurale e lo scenario urbano ormai tipizzati, sembra quasi voler deterritorializzare la storia, nonostante la sua urgenza politica. E lavorando ai lati della censura, sposta lentamente il discorso sul piano universale di sentimenti complessi e contraddittori. Probabilmente non c’è nessuna impennata vera, non c’è la personalità di uno stile originale, malgrado l’elegante controllo delle inquadrature e il lavoro sulle immagini, sulla proliferazione degli schermi e dei punti di osservazione. Le convenzioni formali danno forma a un tessuto visivo più che riconoscibile. Eppure rimane la sensazione di un esordio convincente, necessario.

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