Captain Phillips – Attacco in mare aperto, di Paul Greengrass

captain phillips, di paul greengrass
Rispetto al passato l'occhio di Greengrass sembra – almeno nella prima parte – rallentare il ritmo, ricollocare il proprio movimento dentro le geometrie larghe dell'oceano e della nave. Poi il film esplode, perde le sue coordinate, si  rinchiude in una ineluttabile dispersione claustrofobica aprendo la narrazione a intensissime traiettorie emotive e psicologiche.

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Due uomini si scrutano a distanza con i cannocchiali in mezzo all'oceano. Due comandanti con obiettivi diversi. L'americano Phillips deve trasportare lungo le coste africane una nave carica di aiuti umanitari che forse serviranno a poco, il somalo lo insegue in cerca di denaro, ricompense, riscatti con cui ripagare i suoi capi e forse salvare se stesso. In realtà è una storia di pirati e inseguimenti e a dirla così sembrerebbe quasi materiale tratto da un romanzo di Conrad, o una rielaborazione contemporanea del Master and Commander di Peter Weir. Certo l'inglese Paul Greengrass non ha la classicità romantica e il senso umanistico della lotta uomo-natura presente nel film di Weir. Quello di Greengrass è infatti un cinema più moderno, violento e quasi sperimentale nel suo rimasticare linguaggio documentaristico e spettacolo dentro un contesto che quasi sempre trae spunto da fatti reali di cronaca (Bloody Sunday, United 93, Green Zone).

Qui il soggetto è tratto dal libro autobiografico scritto proprio da Richard Phillips in collaborazione con Stephan Tatty, A captain's duty: Somali pirates, Navy Seals and dangerous days at sea. Film e libro raccontano le vicende che coinvolsero il capitano Richard Phillips e l'equipaggio dell'Alabama durante l'aprile del 2009, quando un manipolo composto da quattro pirati somali armati riuscì ad impadronirsi della nave americana e poi sequestrare il suo comandante, innescando l'intervento armato della marina e dei Navy Seals. Si trattò del primo caso in cui una nave da carico statunitense subì un dirottamento in mare aperto.

A Greengrass interessa soprattutto la tensione della storia, il progressivo succedersi degli eventi e le dinamiche di forza interne. Relega la questione politica terzomondista ad alcuni rapidi ma incisivi riferimenti, incarnadola soprattutto nella memorabile presenza filmica di Barkhad Abdi, smagrito e sonnambolico, inquietante spettro scheletrico dei sensi di colpa dell'Occidente. Rispetto al passato l'occhio di Greengrass sembra – almeno nella prima parte – rallentare il ritmo, ricollocare il proprio movimento dentro le geometrie larghe dell'oceano e della nave. Sono punti di appoggio sui quali il regista di Bloody Sunday rielabora certamente il proprio concitato stile cinematografico con una maggiore attenzione alla diluizione dei tempi (bellissima la presa della nave da parte dei somali, compassata, straniante, con i soli flussi d'acqua a impedire l'avvicinamento dell'imbarcazione dei pirati) e alla recitazione trattenuta, antispettacolare di Tom Hanks. Poi nella seconda parte il film esplode, perde le sue coordinate, rinchiudendosi nella scialuppa di salvataggio con l'ostaggio Phillips e i pirati somali disperatamente segnati nella loro "missione impossibile". Qui nella ineluttabile dispersione claustrofobica Greengrass raggiunge forse l'apice del suo cinema (ma ci sembrò la stessa cosa con il labirinto inintellegibile di Green Zone), apre la narrazione a intensissime traiettorie emotive e psicologiche, fino ad arrivare alla resa dei conti nel cuore della notte, nel buco di un'oscurità che pervade il campo visivo e mette in discussione steccati etici e rappresentativi. In un finale alla Zero Dark Thirty c'è molto del cinegiornalismo di Kathryn Bigelow e Mark Boal. Due autori che con Greengrass stanno scrivendo pagine decisive del cinema contemporaneo. Tra qualche anno ce ne accorgeremo.

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