Caravaggio – L’anima e il sangue, di Jesus Garces Lambert

Il documentario riflette sull’opera d’arte come spazio nuovo, multidimensionale e ancora inesplorato, offrendo un ulteriore punto di vista sulla natura artistica e umana di Caravaggio

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Secondo uno studio di due ricercatori dell’Università di Otago, condotto nel 2001 e nel 2016, il tempo medio speso davanti a un dipinto all’interno di un museo è di circa 28 secondi. Una durata insignificante se pensiamo ai molti dettagli che un’opera può contenere e che diventano quasi impossibili da fissare – soprattutto nel caso di collezioni ampie e quindi di una serie di immagini che scorrono come una carrellata al nostro sguardo. L’operazione compiuta da Caravaggio – L’anima e il sangue riflette proprio sull’opera d’arte come spazio nuovo, multidimensionale e pertanto ancora inesplorato su cui far convergere l’attenzione, nel tentativo di tracciare una prospettiva che si inserisca nella tradizione del documentario d’arte e che al contempo la abbandoni. Accanto agli interventi peraltro indispensabili di storici dell’arte (Claudio Strinati, esperto di Caravaggio e consulente scientifico del progetto; Mina Gregori, presidente della Fondazione Longhi; e Rossella Vodret, curatrice della mostra Dentro Caravaggio), la narrazione si sostanzia di scene evocative (alcune poco incisive) che giocano a tradurre in gesti, forme e colori la vita di uno degli artisti più iconici, e purtroppo talvolta iconizzati, del nostro tempo.

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Perché Michelangelo Merisi da Caravaggio non può appartenere soltanto alla cultura di secondo ‘500 e primo ‘600 – sarebbe erroneamente limitato pensarlo; la sua rivoluzione – e qui parliamo non tanto in senso tecnico quanto di approccio innovativo al reale – continua a ispirare generazioni di artisti (si leggano più sotto le parole di Scorsese a proposito de L’ultima tentazione di Cristo). La scelta di prendere persone dalla strada e trasporle su tela senza mediazioni e in un contesto spesso religioso (prostitute e cadaveri di donna nei panni della Vergine, mendicanti dai piedi sporchi e dalle vesti logore, e, pratica comune, sé stessi) è tra gli aspetti che più colpiscono (e che allora scandalizzarono) il pubblico. Anche il documentario si avvale di soggetti del reale – non attori – per costruire quadri contemporanei che dialogano con il passato annullando quella distanza temporale di cui parlavamo: così il modello che all’inizio si sigilla la bocca con una pellicola di plastica assumendo un’espressione di straziante dolore simula la condizione stessa del Caravaggio, di una libertà sottratta dagli eventi e dall’indole, che per riflesso (era solito dipingere con l’ausilio di specchi) trova corrispondenza sulla tela (la testa di Medusa, il ragazzo morso da un ramarro, Oloferne, Golia…). A questo si accompagna l’io interiore dell’artista che parla per bocca di Manuel Agnelli: una voce particolare, forse vicina per inflessione al suo alter

74815-_2_Caravaggio2018_madonna-dei-prafrenieri_dettaglio-ricostruzione ego, che resta di fatto accessoria e non perfettamente inserita nel discorso generale.

La tecnologia, qui al servizio dell’arte, è invece l’altra grande protagonista. Già alla mostra da poco conclusasi a Palazzo Reale si è proposto qualcosa di simile: esami radiografici che svelavano passaggi, rimaneggiamenti e soluzioni innovative come la tecnica al risparmio; nel documentario invece, attraverso l’altissima risoluzione (8K), il formato panoramico ed effetti digitali che esaltano luci e ombre, viene offerto un ulteriore punto di vista senza snaturare la materia di partenza, restituendoci anzi come nel caso della Madonna dei Palafrenieri la sua originaria collocazione – una cappella nella basilica di S. Pietro (fu per Caravaggio il più grande onore e insieme dolore, dal momento che venne esposta per pochi giorni). Il virtuale si riappropria dunque del reale e viceversa: i serpenti della Medusa sembrano uscire dallo scudo, ancora vivi nonostante la fresca decapitazione e gli angeli delle Sette opere di Misericordia sono appena piombati dal cielo per assistere alla scena. Del resto l’immagine caravaggesca – a dispetto di chi criticava l’artista all’inizio della sua carriera per la fissità dell’azione – è incredibilmente cinematografica, ha cioè in sé il seme del movimento, di quei moti dell’anima studiati e perfezionati da Leonardo che Caravaggio assorbe e fa esplodere rendendo tangibile la natura umana e le sue contraddizioni. Così facendo L’ultima tentazione di Cristo, l’idea era che Gesù doveva essere Gesù Cristo sulla 8th Avenue e la 49th Street a New York […] Ora era un po’ meglio, ma potevi comunque trovarti in un bordello per la maggior parte del tempo […] Era lì che Gesù sarebbe andato. Non sarebbe andato a bighellonare in Park Avenue a New York. Sarebbe andato per strada con i tossici da crack e le puttane. L’idea era di fare Gesù come Caravaggio.[1]

 [1] A. Graham-Dixon, Caravaggio. Vita sacra e profana, Mondadori, 2015, p. 416

Regia: Jesus Garces Lambert
Interpreti: Manuel Agnelli (io interiore di Caravaggio), Emanuele Marigliano (moti d’animo di Caravaggio), gli storici dell’arte Claudio Strinati, Mina Gregori e Rossella Vodret
Distribuzione: Nexo Digital
Durata: 90’
Origine: Italia, 2018

In sala il 19, 20 e 21 febbraio

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