Carlito’s Way, di Brian De Palma

Dopo oltre trent’anni, il capolavoro del regista conserva intatta la sua potenza immaginifica. Un’opera crepuscolare che posa lo sguardo al di là dell’umano, sospesa tra luce e oscurità. Su Chili

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Posare lo sguardo al di là; oltre i confini dell’umano. A intercettare quella frazione di secondo che separa vita e morte, luce e oscurità. Non è forse questa, in fin dei conti, l’aspirazione ultima del Carlito’s Way di De Palma?

Il ventiduesimo film del regista, tra le vette più alte mai raggiunte dal cineasta statunitense, è, dopotutto, un’opera che ragiona di soglie; che non a caso si apre con la sua conclusione, fotografando in bianco e nero la soggettiva sdraiata del protagonista morente, trasportato d’urgenza in ospedale. E che, nel pieno rispetto della poetica del suo autore – esperto e riconosciuto affabulatore retinico – lavora nell’ingannevole scarto tra percezione e realtà; a partire dalla purpurea insegna “Escape to Paradise” che, quasi a sviluppare un negativo dell’inquadratura finale de Le ali della libertà di Darabont dell’anno successivo (1994), tratteggia impietosa la malinconica silhouette di una promessa non mantenuta. Di un idillio sfiorato, ma inafferrabile.

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D’altra parte, l’intera parabola di Carlito Brigante (Al Pacino), ex spacciatore portoricano appena uscito dal carcere e chiamato a confrontarsi con un sottobosco criminale che fa di tutto per ri-fagocitarne l’esistenza, si tinge di una palpabile (eppur mendace) tensione paradisiaca. Visibile tanto nel manifesto pubblicitario posto in incipit e in epilogo al film, quanto nel nomen-omen “El Paraiso” che identifica il club che il protagonista prende in gestione – con l’obiettivo di raccogliere la somma necessaria per fuggire da New York e raggiungere l’onesta occupazione di autonoleggiatore che, guarda caso, lo attende a Paradise Island, nei Caraibi.

La realtà che De Palma rivela dinanzi ai nostri occhi, estrapolata dai romanzi Carlito’s Way e After Hours dello scrittore americano Edwin Torres, è però una camera con vista sull’inferno. Un mondo cambiato, all’interno del quale Carlito si muove come un vecchio cowboy disilluso, “solo che al posto dei cespugli e della merda di vacca, qui ci sono carcasse di macchine e merde di cane”. Un mondo che non è più suo (“The World Is Yours”), ma appartiene ad arroganti nuove leve e avvocati corrotti. Governato dal caos. Un mondo in cui Charlie, instradato lungo il suo personale viale del tramonto – in una gangster story dal sapore antico che, dopo Scarface e Gli Intoccabili, riconduce il regista faccia a faccia con il cinema classico – si ritrova a recitare una vecchia parte, “a fare Humphrey Bogart nel club”, e a coltivare la speranza di un amore che, con le angeliche sembianze di Gail (Penelope Ann Miller), torna a galla all’improvviso dalle profondità di un passato di rimpianti.

Ma la verità è che non c’è più tempo. Non per il romanticismo d’altri tempi, né per il fervore degli ideali di Michael Curtiz. E perfino la donna amata, rincorsa sotto la pioggia nel primo inserto melò del film, sembra ormai solo un corpo venduto alla psichedelia di uno squallido night. Là dove le ambizioni muoiono, falciate dalla scure di una società crudele, e dove lo sguardo di Carlito riflette l’amara consapevolezza di una purezza ormai corrosa, venuta a patti con la sporcizia del reale – “L’ho avuto un sogno Charlie, ma ora sono sveglia. E lo odio quel sogno”.

Ripercorrere oggi le inquadrature del capolavoro di De Palma, a oltre trent’anni dalla prima uscita in sala, significa allora tornare a calarsi in quelle atmosfere noir in grado di farsi frontiera – nel recupero di vecchi codici di genere celebrati nel loro inevitabile deteriorarsi. Per poi riabbracciare le architetture teorico-visive che, pre e post ’93, hanno reso grande e paradigmatico il cinema del regista: tra l’utilizzo insistito della soggettiva hitchcockiana e il cadenzato avvicendarsi di affollati interni e set di più ampio respiro – per lo più ritratti, come nel caso della stazione dei treni di Carlito’s Way, attraverso sinuosi inseguimenti al cardiopalma e riprese stealth.

Quel che rimane, incorniciato da un vessillo americano che, come avveniva in Blow Out, si colora del sangue versato per le strade, è l’inesorabile mentalità viziosa che avvolge Carlito con le sue spire – che spietata lo intrappola come un insetto dentro un bicchiere. È una barca che naviga a vista, traghetto per l’oltretomba immerso nella nebbia del peccato originale.
È però, in fin dei conti, anche un ultimo placido sguardo rivolto a quell’inafferrabile paradiso perduto. A quella danza e serenità crepuscolari che, seppur solo per un istante, prendono vita.

“You are so beautiful to me
You are so beautiful to me
Can’t you see?”

 

Titolo originale: id.
Regia: Brian De Palma
Interpreti: Al Pacino, Sean Penn, Penelope Ann Miller, John Leguizamo, Ingrid Rogers, Luis Guzmán, Viggo Mortensen, Adrian Pasdar, Joseph Siravo, Frank Minucci, James Rebhorn, Paul Mazursky
Durata: 144′
Origine: USA, 1993

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5
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Il voto dei lettori
3.88 (16 voti)
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