Carlo Monni, Firenze e Benigni

Carlo Monni

se n’è andato in silenzio. Era amato da tutti, nella sua città. Aveva iniziato con Roberto Benigni, poteva sfruttare il successo del suo amico per ritagliarsi una nicchia di denaro, di comodità, di benessere. Non lo ha mai fatto. Ha preferito vivere come voleva lui, nella sua Firenze, un bicchiere di vino, un piatto di spaghetti la sera. 

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Carlo MonniNon è facile parlarne così, per un articolo. Carlo Monni era un amico, un amico vero. Non solo mio. Di tanti fiorentini, che lo incontravano mentre passeggiava, a petto nudo, con i sandali, nel suo amato parco delle Cascine. Quasi il suo ufficio: potevi fissare lì l’appuntamento per parlargli di un film da girare.

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Carlo Monni è morto ieri, se n’è andato in silenzio. Era amato da tutti, nella sua città. Aveva iniziato con Roberto Benigni, poteva sfruttare il successo del suo amico per ritagliarsi una nicchia di denaro, di comodità, di benessere. Non lo ha mai fatto. Ha preferito vivere come voleva lui, nella sua Firenze, un bicchiere di vino, un piatto di spaghetti la sera. E tanto teatro, tanti film di esordienti ai quali ha partecipato per due soldi, o anche per niente, per il piacere di fare cinema, di inventare storie.

A raccogliere tutti i cortometraggi e le opere prime alle quali Carlo ha partecipato, si farebbe un festival. A volte, in film minuscoli, giganteggiava con la sua voce, con la sua verità. Perché in ogni inquadratura Carlo Monni era vero, era lui. Sulla sua faccia da vichingo, da capitano Achab del cinema, da Obelix, c’erano sempre la tenerezza e la rabbia, la malinconia e la solitudine. C’era una dolcezza che non era difficile vedere. E non c’era mai un velo di finzione.

Aveva iniziato con Roberto Benigni. E l’aveva proseguita, per anni, con lui. I cabaret di Roma, per lui che veniva da Campi Bisenzio, erano una novità e insieme un fuoco d’artificio che non lo stupiva. Si sentiva sempre uguale, lui, uomo di Campi e uomo dei campi, finito a fare il teatro più strano, di ricerca, nella Roma degli anni ’70. E poi quella trasmissione tv, “Televacca”, che fu ribattezzata “Onda Libera per paura di dispiacere al pubblico tv in bianco e nero. Lì, in una stalla, Cioni e “il Monna” dialogavano, improvvisavano, si divertivano. Si divertirono anche in Berlinguer ti voglio bene e in Non ci resta che piangere, dove Monni era Vitellozzo Vitelli, che finiva male come tutti i suoi fratelli, in quel Medioevo buffo di cui, adesso, abbiamo perduto due volti straordinari. Quello di Troisi e il suo.

Poi, un bel ruolo in Tutti giù per terra di Davide Ferrario, e  tante partecipazioni in film di esordienti, tutti i giovani registi toscani che lo cercavano, come un guru, un nume tutelare, un amico. E a volte, anche qualcuno da sfruttare, per il suo nome e per il suo immenso talento, che dissipava in progetti anche minuscoli. Ma a lui piaceva così, la vita era un continuo fare e disfare, e finiva sempre – alle due del mattino – con una spaghettata nella sua trattoria preferita, quella dei fratelli Briganti, a Firenze, cinquant’anni sempre lo stesso menu. Ma veri. Proprio come lui.

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