“Carnage”, di Roman Polanski

carnage

Polanski è ovunque, la sua firma è in ogni luogo. Ma non pesa e non fa male come una stimmate. Bara e si sottrae, gira Parigi come fosse New York, si affaccia da una porta, per nascondersi subito dopo nell’oscurità di un arresto domiciliare libero e consapevole. Ci deprime, ma ci offre lo splendido inganno di una perfezione cristallina. E’ come un Maradona di celluloide, di luci e ombre. Palleggia tra le immagini e gli spazi, i volti, i tic e le isterie dei suoi incredibili, straordinari protagonisti

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carnagePrologo. Campo lungo. Alcuni ragazzini stanno discutendo in un parco. A un certo punto, uno di loro, escluso dal gruppo, si avvicina a un altro e lo colpisce con un bastone. Stacco. In un confortevole appartamento newyorchese, due coppie rispettabili stanno discutendo, dinanzi a un computer, i termini più adeguati per una giusta e tranquilla dichiarazione di responsabilità. Sono i genitori dei due ragazzini protagonisti dell’incidente. La madre della vittima, Penelope (Jodie Foster), è una donna ‘impegnata’, che ha in progetto un libro sulla tragedia del Darfur. Il marito, Michael (John C. Reilly) è un pacifico e bonario venditore di pentole e impianti da bagno. Dall’altra parte ci sono i genitori del carnefice: Nancy (Kate Winslet), elegante ed equilibrata consulente finanziaria, e Alan (Christoph Waltz), avvocato di grido, impegnatissimo a risolvere ‘telefonicamente’ le grane legali di un’azienda farmaceutica. Tutto sembra risolversi per il meglio, in maniera più che civile. Ma le ansie, gli egoismi, le indifferenze e le infelicità della quotidianità sono solo a un passo dall’esplosione. Ecco, in breve, la storia di Carnage, tratto dalla pièce teatrale Il dio della carneficina della drammaturga e regista francese Yasmina Reza (qui anche cosceneggiatrice). Ed è evidente che, nonostante tutto, si sta parlando di un Polanski purissimo. Un Polanski… Ci perdoni: proprio come fosse un marchio, un quadro, un’incisione, un francobollo. Come se parlassimo di un Kokoschka, di un Bacon, di quello stile che è una dichiarazione di appartenenza, una mortifera garanzia museale su cui il terribile polacco fa vomitare tutta la propria carnage

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sovversiva noncuranza. Sì Polanski è dappertutto, eppure… Suona l’ennesima sottile variazione de Il coltello nell’acqua, progressiva, cinica e inevitabile discesa nella brutalità di un’umanità intimamente folle e crudele, solo apparentemente anestetizzata dalla patina superficiale di una cultura incapace d’intaccarne la radice oscura e animale. Nonostante l’evidente struttura teatrale, le cifre del cinema (e) di Polanski sono in ogni luogo, si riconoscono in ciascun mobile, qualsiasi angolo di quest’interno spazioso, funzionale, eppure (come sempre) claustrofobico, solo in parte aperto e dinamizzato dallo sguardo che incrocia i riflessi dello specchio ad aprire altre prospettive, altri punti di fuga. Alla fine, malgrado tutto, si rimane sempre lì, aldilà di tutti i tentativi di affacciarsi fuori, alla cornice di una finestra, al budello di un ascensore. Si rimane chiusi nelle quattro pareti dei propri stanchi inganni, nelle sterili prediche d’indipendenza e verità, nelle imitazioni di John Wayne e nella paura dei criceti, nei sogni di progresso e liberazione e nella schiavitù dagli oggetti. Al di fuori da ogni psicologia possibile, siamo risucchiati da una specie di forza di gravità che ci richiama a terra, alle nostre colpe innocenti, alle nostre necessarie mostruosità. E non conta che la tragedia sia di là da venire, che non ci sia la Shoah o l’omicidio o l’eros o la follia. Non importa che tutto si stemperi in un risata, appaia un gioco risolvibile in una sbronza liberatoria. Perché la tensione si appropria della quotidianità, opprimendola in una cupa cappa di vomito, stanchezza, pianto, odio e depressione. Sì, Polanski è ovunque, la sua firma è in ogni luogo. Ma non pesa e non fa male come una stimmate. Bara e si sottrae, gira Parigi come fosse New York, si affaccia da una porta, per nascondersi subito dopo nell’oscurità di un arresto domiciliare libero e consapevole. Ci deprime, ma ci offre lo splendido inganno di una perfezione cristallina. E’ come un Maradona di celluloide, di luci e ombre. Palleggia tra le immagini e gli spazi, i volti, i tic e le isterie dei suoi incredibili, straordinari protagonisti. Gioca sul Nulla per 79 o 90 minuti, per un giorno, o forse all’infinito. Davanti ai nostri occhi. Senza darcene mai abbastanza.

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    Un commento

    • Caro Aldo, grazie della interessante recensione.Io sinceramente ho trovato il film un po' noioso e fastidioso ed ecco, malgrado la regia fosse di Polanki, prego di non trovarmi mai a non averne "abbastanza" di una storia come questa.Probabilmente mi sono innervosito in momenti che mi sembravano poco realisitici ma esclusivamente funzionali alla storia, come le due volte in cui Waltz decide di uscire dalla casa vista l'importanza del caso legale in ballo, per poi farsi convincere a rimanere per un secondo caffè (se non mi sbaglio) e poi per una discussione sul criceto morto di cui non potrebbe importagliene di meno.Inoltre, mi è parso che la Winslet e la Foster scoppiassero più a volte a piangere come pazze isteriche, mostrando tutta la presunta debolezza femminile di fronte a due insensibili maschi che hanno come ideale di vita John Wayne, e che hanno una paura matta dei "negroni" africani.Non so, non mi ha purtroppo mai convinto. Spero nel prossimo!