"Cate Blanchett, apolide regnante dello schermo"

Vera regina dello schermo contemporaneo, capace col suo volto di tizianesca bellezza di essere l’unica rivale di madame Nicole Kidman. Corpo e volto attoriali inclassificabili, d’impenetrabili ambiguità che sarebbero piaciuti a un Wyler e forse anche a un Sirk o al suo figlio (cinematografico) Fassbinder: ecco chi è Cate Blanchett

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Vera regina dello schermo contemporaneo, capace col suo volto di tizianesca bellezza (e non solo per il "rosso Tiziano" dei capelli) di essere l’unica rivale di madame Nicole Kidman. Corpo e volto attoriali inclassificabili, d’impenetrabili ambiguità che sarebbero piaciuti a un Wyler e forse anche a un Sirk o al suo figlio (cinematografico) Fassbinder, certo capaci di non passare mai inosservati anche allo sguardo più svogliato puntato verso lo schermo. Potere che supera la fotogenia per toccare le nostre corde emozionali più intime al suo solo apparire: ecco chi è Cate Blanchett, in questi giorni in sala col classicheggiante western senza confini The missing di Ron Howard. Già indecifrabile nelle origini, curioso impasto tra Australia (da parte di madre) e Texas (dal versante paterno), mondi-continenti così lontani così vicini per prospettive geografiche, culturali e industriali, nata il 14 maggio 1969 (tra pochi giorni lo scoccare dei 35… auguri!) viene segnata in un’età così delicata come quella dell’adolescenza dalla scomparsa del padre, quando ha appena 10 anni. E l’evento è anche una svolta nella storia dell’intera famiglia che si stringe sul suo baricentro affettivo e dal rapporto rafforzato coi due fratelli deriva, forse, quella carica di androginìa che costituirà una delle tante sfumature appena percepibili di Cate-attrice. Diciottenne decide di partire per l’Egitto dove scoppia la scintilla che farà divampare il suo amore per il cinema: nell’albergo dove alloggia si sta girando un piccolo film e ha l’occasione di provare il primo brivido davanti alla mdp come comparsa. L’esperienza la scuote a tal punto che ritornata in Australia decide di studiare recitazione al Sydney’s National Institute of Dramatic Arts, dove a 23 anni si diploma iniziando a farsi le ossa con un’intensa attività artistica sdoppiata tra il calcare i palcoscenici teatrali in ruoli che comprendono anche quelli shakespeariani di Miranda (La tempesta) e Ofelia (Amleto) e cechoviani (Nina in Il Gabbiano), e le apparizioni tv che comprendono telefilm quali Heartland (1994) e Bordertown (1995).

E se l’esordio cinematografico non è di quelli "col botto", visto che avviene nell’inedita e trascurabile trasposizione filmica della serie tv Police Rescue (alla quale aveva partecipato nel 1990 come mrs. Haines nell’episodio The Loaded Boy), dopo un altro triennio (quanta pazienza per emergere!) è ora di cominciare a far capolino "nei piani alti" quando si fa dirigere dal connazionale Bruce Beresford, director australiano emigrato nell’83 a Hollywood e vincitore di 4 oscar col tris d’assi Tandy-Freeman-Aykroyd di A spasso con Daisy, in Paradise road. Qui Cate si trova catalputata a Sumatra, dopo la caduta di Singapore, prigioniera per 3 anni dei giapponesi e non sfigura col suo talento ancora acerbo accanto a due star quali Glenn Close e Frances McDormand. E in quello stesso anno inizia anche a fare le "prove generali" calandosi nell’età vittoriana di Oscar & Lucinda, love-story atipica (e in splendidi costumi) tra il bizzarro anticonformismo della sua Lucinda, ereditiera australiana appassionata del gioco delle carte al casinò e la guasconeria di Oscar (Ralph Fiennes), dedito a provare brividi scommettendo sugli zoccoli che calpestano un ippodromo. Ma il 1997 è anche l’anno della consacrazione sull’altare, che la radica ancor più nella fabbrica delle meraviglie: sposa, infatti, lo sceneggiatore Andrew Upton (intento ad adattare per lo schermo Il Pendolo di Foucalt di Umberto Eco) dal quale avrà, nel dicembre 2001, il figlio Dashiell John (e in questi giorni il secondo: Roman Robert). La consacrazione definitiva giunge l’anno successivo quando impugna lo scettro e si fa incoronare come regina Elisabetta I d’Inghilterra sul sontuoso set del bio-pic Elisabeth di Shekhar Kapur, ruolo col quale tuttora l’identifica il grande pubblico. La mimesi creativa col personaggio è totale e Cate attraversa questa furente carrellata su un periodo storico così complessamente contraddittorio e ingarbugliato con aura regale, fin da quando è palpitante giovinetta innamorata ed emotiva evolvendosi poi (degno parto del connubio Enrico VIII-Anna Bolena) a quella sovrana che per prima riuscì

a sdoganarsi dal potere maschile rappresentato dal re o, come in questo caso, dal machiavellico consigliere (interpretato con gran classe da Geoffrey Rush), rinunciando alle "debolezze" di donna, per incarnare con epica, divina e raggelante fermezza una vita da Regina con la "r" maiuscola. Una consacrazione che avrebbe intrappolato per sempre la carriera di molte attrici con una sola cartuccia nel caricatore. Ma il caricatore di Cate era (ed è) ancora pieno, così lasciatasi alle spalle la nomination all’Oscar per quello che rimane (per ora) il ruolo della vita, dopo una battuta d’arresto con Falso tracciato di Mike Newell (che ha fatto di meglio: Ballando con uno sconosciuto, Quattro matrimoni e un funerale e Donnie Brasco… tanto per dire) che si distingue solo per l’originalità delle vite che osserva, quella di due controllori di volo (Bob Thornton e Cusack) e dove l’irruente carica sensuale di Angelina Jolie un po’ l’accantona, è ancora una volta il momento per indossare corpetti e corsetti d’altri tempi ma in un’atmosfera da sofisticathed comedy degli equivoci nata dalla penna del genio di Oscar Wilde. In Un marito ideale dello specialista wildiano contemporaneo Oliver Parker, nonostante una presenza abbastanza defilata graffia lo schermo con la raffinata giustezza della sua lady Gertrude. Ne Il talento di Mr. Ripley di Anthony Minghella, invece, mostra alla sopravvalutata Paltrow cos’è la sobrietà espressiva e trova il tempo anche di concedersi alla prova registica del marito nel corto, ambientato in una cucina, Bangers. E allo scoccare del nuovo millennio Cate si tuffa verso il personale appuntamento con l’horror, un genere che sembra fuori dalle sue corde. Invece stupisce e conferma la carica misterica della sua recitazione e della sua semplice presenza schermica nell’affascinante, liquido The Gift, dove la geniale artigianalità stravagante, ipertrofica e farsesca (eppur terrorizzante) del ragazzino "anni ottanta" Sam Raimi s’incammina, vincendo la sfida, sull’impervio, fangoso terreno della parapsicologia dopo lo splendido psicologismo parabolico di Darkman.

E la vedova "cartomante" Annie Wilson, sola e con tre figli, della Blanchett attraversa il film col suo "dono" (lo "shining" kinghiano-kubrickiano…) come un fantasma di palpabile terrore. Dopo la trascurabile esperienza nel melodramma kitsch L’uomo che pianse che manda in malora un cast a quattro stelle che comprende Ricci, Deep e Turturro e si profila come un’occasione mancata di produrre scintille melò assieme alla fertile eleganza dimostrata altrove dalla regista Sally Potter, il ruolo successivo non concede più a nessun spettatore cinematografico degno di questo nome d’ignorarne la presenza nel parco attoriale: la sua Galadriel, regina degli Elfi nel kolossal Il signore degli anelli – La compagnia dell’anello è efebica, malinconica "sacerdotessa" che risucchia lo sguardo e lo rilascia tramortendo. Se il dolente ma un po’ statico The shipping news di Hallström la vede convincente madre snaturata e volgare, Bandits di Levinson ne mostra la briosità comica e ne rinconferma, in questo atipico triangolo "alla Jules e Jim", la capacità di non farsi mai mettere in ombra. Vendicatrice del marito morto di overdose in Heaven, che doveva essere la prima parte di una trilogia (Purgatory e Hell i successivi capitoli) scritta e diretta da Kieslowski prima della prematura scomparsa e la vede aggirarsi tra i set di Torino e Montepulciano, mentre timbra il cartellino nei seguiti de Il signore degli anelli la vediamo imporsi in ruoli forti e volitivi particolarmente congeniali alla sua sensibilità androgineggiante: "Mata Hari scozzese" alla ricerca di segreti e amore nell’apprezzabile Charlotte Gray e giornalista d’assalto nell’equilibrato Veronica Guerin – Il prezzo della verità, e ancora, sdoppiata tra volute di fumo e infiniti abbeveramenti caffeinici nel ruolo gemellare ying e yang del deliziosamente (e apparentemente) svagante Coffee and cigarettes di Jarmush.

Ed ora? Attesissima alla prova del fuoco dell’agognatissimo "prossimamente" The Aviator, l’ultimo film di Scorsese sulla vita "bigger than life" di Howard Hughes (Leonardo di Caprio), dove interpreterà niente meno che il "divino maschiaccio" Katharine Hepburn, vedremo che fiammate saprà far divampare dal suo ruolo immersa nel fiammeggiante cinema viscerale del Maestro italo-americano. E dopo l’esperienza scorsesiana, verrebbe proprio l’acquolina in bocca a immaginare che finalmente avvenisse l’incontro che tutti, sotto sotto, ci auguriamo dai tempi di Elizabeth: quello con la Jane Campion di Due amiche, Sweetie, Un angelo alla mia tavola, Lezioni di piano, Ritratto di signora (e non del supponente In the cut). Sperar non nuoce.

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