CATTIVE LETTURE – Il segno trascendentale in Paul Schrader – Da "Trascendental Style" ad "Autofocus"

Cosa dice Paul Schrader nel suo testo? Che il cinema ha il dovere di interrogarsi sul carattere delle immagini/visioni messe in campo.

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Un'immagine è un'immagine. Già, ma cos'è l'immagine? Se lo sono chiesti in tanti, ce lo chiediamo anche noi. O meglio, tergiversiamo, accampiamo nella mente definizioni più o meno plausibili, nascondendo nell'esitazione il germe di una verità indecedibile: l'immagine è (forse) mascheramento di un vuoto, è il mostrato che ci nasconde mille altre parti del visibile, è una rappresentazione/ esibizione/ occultamento di qualcos'altro, nello stesso tempo. Si rappresenta per nascondere, si esibisce per cancellare. E' una proporzione sfalsata, un artificio sepolcrale che azzera la presenza per rilanciarla sotto veste di forma, in nucleo di visibilità. Nel momento in cui ci si concentra su di un logo visivo, se ne ignora un altro; il senso politico del filmare è questo, ma ancor di più si tratta di giocare con la teoria dello sguardo incollato/ingabbiato all'interno di una macchina da presa. Leggiamo allora la realtà nel momento in cui la manchiamo irremediabilmente. O meglio, la trascriviamo, stravolgendone i contorni. Il lavoro di Paul Schrader (prima attraverso la scrittura, poi direttamente all'interno della messa in scena del proprio occhio) è esattamente questo. Non filmare l'immagine, non rappresentarla, non mimetizzarla. Ma semplicemente contaminarla, inquinarla, lavorarla insomma, dal dentro al fuori, innescando cesure inimmaginabili dei suoi orizzonti visibili. Quando Schrader si laureò nell'ormai lontano 1972 in Storia del cinema con una tesi sullo stile trascendentale in Ozu, Dreyer e Bresson (Transcendental Style in Film -Ozu, Bresson, Dreyer) aveva già le idee molto chiare. Prima ancora di Deleuze, procedeva infatti ad una tassonomia di immagini, di luoghi, di visioni. Di segni, insomma. Li comparava poi con un esercizio critico severo e disciplinato, giungendo a conclusioni che hanno permesso alla tesi di trasformarsi in libro, mutato a sua volta in imprescindibile testo di riferimento per aggirarsi con un minimo di coscienza nella spirale immaginifica/fantasmatica che ci avvolge oggi. Cosa dice Paul Schrader nel suo testo? Ma semplicemente che il cinema ha il dovere di interrogarsi sul carattere delle immagini/visioni messe in campo. Il chè vuol dire interrogazione critica su un certo stile (quello che forgia immagini, non quello che le serializza in un unicum rappresentativo atrofico e immobile), sulla sua capacità di dire l'essenza dei corpi rappresentati, attraverso una diagnosi dialettica del loro progress. Eccoci allora al primo punto su cui vale la pena soffermarsi: Schrader prende il cinema ( o meglio, le immagini del cinema) dei tre registi precedentemente citati, le spoglia di ogni connotato empirico, e le saggia quali enti (proprio nella misura in cui appaiono come preesistenti rispetto allo stile utilizzato) in grado di realizzare un avvicinamento (inizialmente soltanto teorico) alla sacralità del vero. In altre parole, stigmatizza la loro attualità mondana (appunto quella del ritrovarsi in un contesto per forza di cose statico e presente a se stesso), per tracimarla in evoluzione, in cambiamento, in trasformazione. Ad un'immagine, corrisponde un cinema, e meglio ancora, uno stile. Si parla allora di stile trascendentale (appunto quello che nasce dal percorso labirintico affrontato da un corpo in cerca di definizione), ma per dire in realtà di un'immagine doppia, tripla, che ci racconta di un viaggio all'interno del meccanismo significante messo in moto da un'irruzione improvvisa, inaspettata: quella dello sconvolgimento, della perdita. Della rottura. Schrader di parla della Giovanna D'arco dreyeriana, dei moti invisibili bressoniani, delle sublimi/infinite ripetizioni di Ozu. Seguiamo allora il suo iter (che occupa peraltro nel testo una parte centrale), con una semplice differenza. Invece di prendere come esempio Ozu e Dreyer, prendiamo lo stesso Schrader e il suo ultimo Autofocus, che ci pare prestarsi molto bene a questo tipo di ragionamento. E' uno dei massimi capolavori del regista, ma non basta. E' forse il suo film più personale di sempre, quello in cui confluiscono tutte le sue ossessioni nella forma meno controllata possibile. Andiamo dunque a leggere l'opera attraverso il testo di Schrader, concentrandoci per l'appunto sulla parte più importante del libro. Si parte da una divisione, da uno scaglionamento. Come diventare (lo stile) trascendentale. Si parte dalle soglie del quotidiano, ossia, dalla rappresentazione della quotidianità abitudinaria più piatta e monotona che si possa immaginare. Per dirla con Schrader, si avverte il "desiderio di spogliare la vita di ogni espressione", il chè significa scegliere un registro volutamente monotono, privo di sussulti, di sorprese, di drammi. Scelta volutamente antirealistica questa, anzi vero e propria antinomia, trattandosi in fondo del grande spettacolo (micro e macrodramma del quotidiano) della vita. Prendiamo allora la parte iniziale di Autofocus.

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L'interno di una radio locale da cui trasmette il protagonista Bob Crane, il successivo interno rappresentato dall'ufficio del suo manager che gli fa una proposta allettante, la sua casa infine, e nella fattispecie la camera da letto in cui parla con la consorte della offerta fattagli. Sono tre diverse rappresentazioni di uno stesso luogo, prima mentale che fisico: quello in cui viene tracciata la soglia di comprensione del quotidiano appunto, i suoi leggerissimo moti orizzontali e la sua solida superficie. E' dunque uno spazio, il non-set per eccellenza in cui già si lavora sulle fasi successive. Ce lo dice peraltro lo stesso testo: "la realtà viene preparata all'irruzione del trascendente", proprio nel momento in cui se ne celebra la fredda vacuità. Vediamo allora cosa succede. Schrader in questo inizio classicissimo (i titoli di testa sembrano addirittura provenire dall'altrove dell'immaginario hollywoodiano, celebrato nei credits iniziali simili di Mullholland Drive) seziona la messinscena, squadrandola nelle tre parti suddette. La terza (per l'appunto la casa del protagonista) corrisponde ad una sorta di punto di non ritorno, lo spazio della retta/quotidiano più lontano dal suo inizio (l'interno innocuo della radio). Il motivo è chiaro. E' l'interno familiare nella logica schraderiana (basti pensare al tragico movimento centrifugo di Hardcore) ad essere quello più esposto al rischio di fratture, di sconvolgimenti, di allontanamenti. Quando la moglie del protagonista Bob legge il copione di Hogan's Heroes (una commedia ambientata in un campo di concentramento) si ricrede sulla qualità della storia e spinge il marito ad accettare la parte. Ecco allora il primo germe pronto a contaminare l'equilibrio familiare: l'assenza di significazione dell'ordinario, messo alla prova da uno sbilanciamento che prepara il terreno al primo, importante passaggio. Il quotidiano finisce qui, ai primi accenni di una realtà extra quotidiana da esperire (e cosa, meglio dei ritmi televisivi, potrebbe mai rappresentare meglio tutto ciò?). Eccoci allora giunti alla seconda fase. Schrader a questo punto ci parla di disparità; si tratta "di una discordanza reale o potenziale tra l'uomo e il suo ambiente" pronta a sfociare in "una azione decisiva". Autofocus continua a venirci in soccorso. Crane si inserisce subito nel serial televisivo (che peraltro ha subito un grande successo) e viene a conoscenza di un nuovo ambiente. Tecnici, registi di prima e seconda unità, figuranti. Con una panoramica poi, dopo aver assistito alla sequenza di una puntata, assistiamo all'incontro tra il protagonista e un tecnico, John Carpenter, esperto di nuove riprese (nonché pioniere dei nuovi sistemi di videoregistrazione). E' un corpo (quello incredibile dell'eccezionale Willem Dafoe) iscritto precisamente nel nuovo orizzonte succeduto al quotidiano, un orizzonte che incrina, spezza, fagocita la routine sommessa della vita precedente. Inizialmente, con un semplice appuntamento. I due si rivedono infatti in un locale di spogliarelli per uomini (lo stesso in cui il protagonista comincerà da lì a poco a suonare la batteria), danno un'occhiata all'ambiente, entrano in confidenza. Tanto basta. Schrader a questo punto non recede rispetto alla scena primaria (i tre esterni descritti inizialmente), ma semplicemente cambia interno. La scena familiare comincia a diradarsi all'inverosimile (vedremo però fra poco in che modo), mentre Bob e John, annullando di fatto ogni dipendenza dall'esterno, si rinchiudono in due gabbie spaziali, dai connotati sempre più similari: dai locali a luci rosse, all'appartamento di John in cui filmare (con le sue apparecchiature avanzate) i loro incontri erotici con le donne di turno. La disparità descritta da Schrader nel suo testo è questa: "insensibilità dell'ambiente" (ci si riferisce alla grigia ripetizione del quotidiano con una moglie e tre figli a sancire la normalità repressa dell'istinto), seguita dallo scatenamento irrequieto di pulsioni elementari (la voglia di sesso del protagonista assume i tratti di una ossessiva coazione a ripetere). Nel testo si parla apertamente di nuova densità umana. "La marionetta della realtà di ogni giorno" si è trasformata in essere autocosciente gettato nell'irrazionalità folle dell'accidente (sotto forma di incontro occasionale con Carpenter), all'interno di spirali incontrollabili. E ancora "durante la disparità, lo spettatore osserva la morte delle esperienze e dei sentimenti umani sullo schermo". Ci siamo, ci troviamo propriamente al centro di questa nuova esperienza, iniziata paradossalmente proprio in uno degli ultimi squarci dell'ambiente domestico. La moglie del protagonista trova in garage prima le riviste porno del marito, poi le foto dei suoi numerosi incontri sessuali.


E' l'ultimo atto dell'interno familiare. La discesa di Bob Crane incomincia. Prima con l'amicizia con Carpenter (improntata ad un massimo di ambiguità e di schizofrenia), poi con l'arresto graduale della sua carriera, e la fine della serie televisiva che gli ha dato il successo. Disparità significa anche traslazione fattuale dalla chiarezza dell'assunto iniziale, alla distorsione di quello presente. Crane non appare quasi più in televisione, in compenso virtualizza la presenza di ieri nell'immaginario familiare, in quella del presente su coordinate scopiche voyeuristiche e malate. Passa intere giornate assieme all'amico a rivedersi sullo schermo mentre fa l'amore, la ritualità del suo farsi corpo/frame è automatica e micidiale, sfalsata soltanto dalla angolazione di ripresa. Al tempo stesso, assistiamo però ad una rarefazione sempre maggiore dei corpi presenti sullo schermo. Quando Crane era uno degli uomini di spettacolo più celebri, non aveva certo problemi a collezionare avventure di ogni tipo (procacciandole anche all'amico John), mentre ora, sull'orlo del baratro, non ha certo la stessa facilità di prima. Il sesso inizia così a mancare, il videoregistratore si incanta su un rewind infinito, doloroso, spiazzante. E' soltanto prolungando all'infinito l'estasi del godimento sessuale (dimentico delle responsabilità ,della famiglia, del lavoro) che Crane prova ad esorcizzare il fuori fuoco che lo attende subito dopo. Ma di passaggi stiamo trattando, di misteriose porte (teoriche e vitali come poche altre oggi) pronte e condurci nella terza ed ultima fasi, quella della stasi. Schrader, ancora trattando della disparità, ci parla dell'azione centrale di questa fase, di un'azione risolutiva (viene citata nel testo quella del miracolo finale di Ordet) che spezzerebbe la stilizzazione del quotidiano. Ne abbiamo già mostrate alcune, ci manca l'ultima , la più importante. Rivedendosi per l'ennesima volta, i due ri-assistono ai congressi carnali consumati nel corso dell'ultimo anno, tentando di ricordarsi l'occasione, il luogo, il tempo, dei fatti filmati. Poi si masturbano. E' un'imprecazione, un'azione, un ricordo, un pianto ininterrotto. Qui Schrader si avvicina irremediabilmente alla forma di una sorta di melò pornografico (sempre di corpi si tratta, con lo sperma che sostituisce le lacrime) in cui i due sembrano condannati al solipsismo brutale e meccanico di una pratica che nasconde di fatto un'assenza tragica di realtà, di umanità, di vita. Lo schermo bianco/nero/sfocato/elettrizzato strappa via gli occhi, ipnotizza in un cortocircuito di forme destinate a replicarsi senza fine, annienta lo sguardo, bruciandolo in un caledoscopio mortuario di lampi visivi che tolgono letteralmente vita. Torniamo al testo: "l'azione decisiva non risolve affatto la disparità, ma la congela in stasi". Siamo giunti così al terzo e ultimo passaggio. Dalla disparità, alla stasi. Il chè equivale a dire "vista ghiacciata della vita che non risolve la disparità, ma la trascende". I due corpi, immersi nello sfarfallio preistorico di un'immagine sgranata in cui perdersi continuamente, restano immobilizzati davanti allo schermo, in attesa di una trascendenza che li riscatti, di un'immagine rivelatrice che indichi loro la sublimazione avvenuta tra forma e contenuto della loro storia, dei loro errori, delle loro ossessioni. Che forma dare alla trascendenza? Ci vengono in mente (complice il testo del regista) l'ultimo sguardo fuoricampo del protagonista di Pickpoket, la resurrezione di Dreyer, ma anche la corsa finale fuori/dentro il campo (si tratta di una spiaggia) del protagonista di Fratelli e sorelle della famiglia Soda di Ozu. Dunque frammenti sparsi, in grado di spazializzare la densità materica del set, sublimandola in afflato sovrumano, spirituale, oseremmo dire mistico. Ci pare che Schrader nell'ultima, immensa parte di Autofocus si rifaccia chiaramente al Dreyer de La passione di Giovanna D'arco.


Quello che nel regista danese era il tentativo di superare l'impasse del muto, attraverso un'ascesa espressiva tutta giocata sul volto della Falconetti (in opposizione a quello parimenti intenso di Artaud), in Schrader si trasforma in potenza di una fisicità appannata (Bob Crane nell'ultimo segmento ci appare invecchiato, l'ellissi ha coperto un divario temporale notevole),e ancor di più in rinascita del dispositivo oculare sotto forma di sperimentazione sul volto del protagonista (e dunque su quello del suo doppio Carpenter), sulle sue impasse nervose, all'interno di uno scenario formale apocalittico (l'immagine perde a mano a mano consistenza, si offusca) illuminato da una luce ipnotica, potente, misteriosa. Una luce vitrea, dunque, per l'appunto ghiacciata, a segnare l'assideramento ormai definitivo su costanti in cui emerge con forza una forza che non fatichiamo a definire "trascendente": "il quotidiano e la disparità sono emozioni, ma la stasi è una forma" (…). Si tratta allora della forma che porta Crane a ripassare in rassegna il suo ultimo calvario (l'incontro con il figlio e rispettiva fidanzata, la rottura dell'amicizia con Carpenter, la fine della sua carriera), prima di sparire per sempre, ucciso nel sonno. Le tracce di sangue lasciate sulla parte dai colpi che lo uccidono sono terribili graffi "di una scena statica, serena, organizzata, attraverso la quale la stasi rinforza questa nuova concezione della vita". Il trascendentale allora non è altro che un'immagine, una luce, un corpo inerte. Un'interruzione di vita, nell'estasi luminosa del fermo immagine.

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